QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.55: L’accostamento al mito. Roberto Mosi, “Luoghi del mito”

Creato il 01 novembre 2010 da Retroguardia

L’accostamento al mito. Roberto Mosi, Luoghi del mito, Faloppio (CO), Edizioni Lieto Colle, 2010

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di Giuseppe Panella*

Dopo aver poeticamente investigato i non-luoghi del Moderno e della sua apoteosi in postmodernità velocizzata e implacabile verso i residui della cultura tradizionale sopravvissuta alla terza Rivoluzione industriale del Novecento, quella telematica, Roberto Mosi si attesta sul versante di ciò che è il Non-Luogo per eccellenza e da sempre: il mito classico.

«[…] il mito ci parla di eventi che non sono mai accaduti ma che sempre “sono”, non nella realtà della storia, ma nella realtà delle parole che usiamo per costruire possibili orizzonti di senso. E’ un percorso del pensiero che ci porta a non relegare il mito in una dimensione arcaica; al contrario, il mito è, per così dire, declinato al futuro. “Se ne può appropriare o riappropriare solo chi disponga di grande consapevolezza critica e di altrettanto grande fantasia creativa” (Sergio Givone). L’uomo contemporaneo è come chiamato ad un’impresa: deve imparare, per dirla con le parole di Nietzsche, a “sognare sapendo di sognare”. In questa ricerca possono essere liberate le energie che in potenza sono racchiuse nel mito» (p. 10)

scrive Mosi nella sua breve Premessa al volume. Giustamente l’autore rileva la perennità del mito rispetto allo scorrere continuo e implacabile della storia e del suo corso transitorio e legato alla realtà dell’attimo vissuto. Anche la poesia, per questo motivo – la sua ricerca di eternità – invoca il privilegio di non passare invano, di permanere, di conservarsi nel suo statuto di possibile non-mortalità ad opera dei suoi valori formali e dei suoi contenuti condivisi. Riprendendo anche alcuni testi già apparsi in altre sue raccolte qui ben integrati con la sua produzione nuova, la ricerca poetica di Mosi vuole andare nella direzione di una riutilizzazione dei materiali mitologici per verificarne la possibilità ermeneutica e la qualità espressiva dal punto di vista della scrittura. In questa sua aspirazione, allora, è chiara la volontà di utilizzare l’a-temporalità classica del mito in chiave dinamica per assecondarne l’adattabilità alle situazioni e alle proposte culturali di oggi. Ne è espressione simbolica la divaricata cibernetizzazione del mito del dio Ermes:

«Ermes. Bit, bit, byte, post, blog: / sventolano strisce di blog / dai calzari alati di Hermes, / sono messaggi d’amore / in corsa nell’algida rete / alla ricerca dell’altro. // www.poesia3000.splinder. com /  blog di trecento giorni / striscia di cinquanta post / poesie pensieri info diari / profilo, foto dell’autore. / Cinquemila visitatori, / cinquemila nasi, bocche / diecimila orecchie, occhi / cinquantamila dita. / Contatti brevi, lunghi, / meraviglia negli sguardi / bocche storte, in tralice: / “Si tratta di vera poesia?”» (p. 32).

In questa sua provocazione fortemente accentuata sul piano espressivo, il poeta fiorentino sembra sposare una delle tesi forti che già furono del compianto Furio Jesi:

«Si potrà obiettare che il tempo del mito è immobile, e dunque che nella sfera del mito un istante vale l’eternità. Ma anche se il tempo del mito è effettivamente immobile, esiste nella percezione di esso una costante che definiamo “lunghezza” anziché “durata”: lunghezza tutta simultaneamente percepita, così come è percepita ogni sua frazione, e tale quindi da far coincidere con l’istante di chi percepisce sia l’intera realtà del tempo mitico sia le parcelle di esso. La realtà essenziale di quella durata è intrinseca non solo alla struttura di un mitologhema quale vicenda narrata, ma anche al più intimo valore di rivelazione assunto da esso. Si dovrebbe anzi dire che quella lunghezza diviene reale quanto più un mitologhema acquista in un determinato contesto religioso valore di rivelazione e di redenzione. In questo senso, nell’ambito del mito, l’“una volta tanto” porta l’uomo più vicino al dio, mentre il “da oggi per sempre” avvicina il dio all’uomo» (Furio Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Torino, Einaudi, 1979, p. 122).

In questo tentativo – trasformare in realtà di oggi l’istante eternizzato del mito – risiede il merito principale della ritrascrizione dei “luoghi del mito” da parte di Mosi. Si tratta, in sostanza, di trasformare ciò che è acquisito come mitologhema (per dirla con il linguaggio più tecnico di Jesi) – il culto di diana, la vicenda di Orfeo ed Euridice o il mito della Sfinge, a esempio – in dato comprensibile con la percezione di oggi e usarlo non tanto come simbolo di un “passato che non passa” quanto come metafora del presente.

Così come si avvia sui percorsi del mito greco-arcaico allo stesso modo Mosi ritrova nella poesia antica o in altre mitologie diverse da quella classica (quella nordica, ad esempio, di wagneriana ossessione) lo spunto per una riflessione tra il serio e il leggero (l’ironico è tra i modi di quest’ultimo periodo dello scrittore) che sappia però parlare al lettore del presente. La rivisitazione del mito di Ulisse sembra, in effetti, particolarmente riuscita sotto questo profilo:

«Ulisse. L’alba sorprende / l’eroe volo AZ1414 / le armi in pugno / il computer per scudo / il telefono in mano, / altri cento achei / infossati nei sedili. / Sulla terra le ombre / cedono alla luce, / le strade vomitano / macchine nervose. // Alla sera la flotta / attende il decollo / le truppe ammassate / nelle piccole navi. / Infine il balzo / nella notte di pece. / Il porto d’Itaca è chiuso / per la furia dei venti, / il riparo oltre i monti. // L’eroe raggiunge / la reggia del sonno. / Penelope dorme stizzita, / solo Arturo saluta / il ritorno, la coda ritta. / L’eroe guarda la posta, / pone in ordine le armi / si distende sul letto. / Il risveglio è vicino. // Ogni sera Ulisse / torna a Itaca» (pp. 30-31).

Anche nell’età postmoderna delle comunicazioni di massa e dei trasporti ultraveloci, Ulisse è sempre lo stesso. Tornare a casa è il suo mestiere e lo fa allo stesso modo che nel poema di Omero, solo che qui usa strumenti diversi dall’eroe antico ma con desideri e ambizioni antiche.

Anche Orfeo viene riletto in una dimensione modernizzata che ne esalta i caratteri imperituri e convenienti alla nostra epoca (così come aveva fatto anche Dino Buzzati nel suo Poema a fumetti):

«Orfeo. Se Orfeo poté col suono della canore / corde della sua cétera treicia / evocar l’ombra della sua consorte (Virgilio, Eneide, c. VI, vv. 173-175, trad. it. di G. Vitali) Cerbero il gigante dalle teste / rotanti ha trafitto Firenze, / nove chilometri di galleria. / Il treno è in arrivo in mezzo alla folla. / “Orfeo è alla guida del treno” / sospira una voce innamorata. / “Euridice è vestita di bianco”. // Nella città divisa dall’odio / la vita si è accesa. / Orfeo ha convinto tutti / a scendere all’inferno / a gettare i simboli dell’odio / nelle voragini profonde / oltre il suono dell’eco. // “Il canto ci ha conquistati, / siamo scesi in fila indiana / seguendo il suono della voce”. / Davanti ceste di retorica / simboli della Chiesa trionfante / insegne della massoneria / bandiere d’ogni ideologia / paraventi per tramare nell’ombra. // Euridice è alla guida di Cerbero / nella melma degli ultimi strati, / la tuta bianca, l’elmetto sopra / i capelli biondi. Orfeo / s’innamorò al primo sguardo. / Implorò Ade di lasciarla salire. / “Uscirà alla fine dello scavo / quando passerà il primo treno”. // “Orfeo ha distrutto, Orfeo / ha creato”. Il suo canto / ha scolpito Firenze: / musica, libertà, uguaglianza. / Il centro è diventato periferia / la periferia centro. In ogni / quartiere un luogo per l’incontro / con i popoli del mondo. // Un boato scuote la terra, / un vortice acre di fumo. / Sul silenzio di gelo le parole / di Orfeo alla radio: “I binari / hanno ceduto. Scendiamo / sotto la terra per gettare altre / scorie. Euridice è già al lavoro / i motori di Cerbero accesi” » (pp. 27-28).

Orfeo è un uomo moderno, un politico abile e capace che cerca di mediare attraverso lo scontro delle più disparate ideologie e produrre un’unità reale tra gli uomini. Ma di fronte a Euridice il suo cuore vacilla. Innamorato, cerca di salvarla dal possibile sacrificio richiesto dal progresso umano ma nulla può contro il destino. C’è una speranza, però: alla fine degli scavi e del lavoro rotante di Cerbero forse ritornerà alla superficie. Versione ironica e attualizzata del mito, questo testo poetico conferma la limpidezza usata da Mosi nella costruzione del verso e nel ritmo dello stile poetico (semplicità che non scade, tuttavia, mai nel semplicismo e nell’autoevidenza eccessiva). Essa cerca conferma in una scrittura senza forzature né sovratoni ma in un progetto di rilettura della temporalità del presente che si riannoda al suo sostrato più profondo e alla sua valenza non eludibile di richiamo al passato remoto.

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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)


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