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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.62: In the Soup, dentro la placenta dei versi. Pasquale Vitagliano, “Amnesie amniotiche”

Da Fabry2010

QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.62: In the Soup, dentro la placenta dei versi. Pasquale Vitagliano, “Amnesie amniotiche”In the Soup, dentro la placenta dei versi. Pasquale Vitagliano, Amnesie amniotiche, con un’ Introduzione di Giovanni Nuscis, Faloppio (CO), Lieto Colle Edizioni, 2009

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di Giuseppe Panella*


«Pop Art Pops. Rimossa la piastra poetica, / smontate le officine del secolo, / spostata sul ventre la guardia, / cos’altro resta da dire? // Rimetto tra le cose la parola, / metto a bagno i versi, / e premo sull’uscio del giorno, / perché sia giorno benedire. // Rivolgimi un nuovo saluto, / soltanto la vita è scampata, / adesso che Soup non è che soup, / per una pietà umana / nient’altro che parola, / senza più umanità» (p. 73).

QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.62: In the Soup, dentro la placenta dei versi. Pasquale Vitagliano, “Amnesie amniotiche”
La riproduzione multipla della scatola di zuppa di pomodoro Campbell è probabilmente, insieme alla simultanea delle dieci Marilyn riprodotte come poster murali, l’opera più nota di Andy Wahrol e sicuramente uno dei simboli più significativi dell’avanguardia artistica del secondo Novecento.

Oggi che la dimensione avanguardistica dell’esperienza dell’arte assoluta si è trasformata in puro affare commerciale, in “alienazione artistica” (per dirla con Mario Perniola), la poesia ritrova una sua possibile dimensione non soltanto estetica ma anche esistenziale, in modo certo transitorio ma non per questo meno valido. Vitagliano cerca di ritrovare uno spazio per le parole che scrive, per le sue possibili verità, per il suo progetto di scrittura dell’umano. Annota Giovanni Nuscis nella sua breve ma succosa Introduzione al libro:

«L’artista non è solo artefice piegato nel proprio sogno di bellezza, sembra volerci dire l’autore, ma un generoso ostensore di ciò che sensi e intelligenza hanno saputo cogliere, prima, e tradurre, poi, in forma artistica. Un compito e un ruolo, all’interno della società, attenuatosi indubbiamente negli anni, per la crescente complessità delle cose, e per il sopravanzare di forme espressive (la musica, il cinema) e di strumenti (tivù, Internet), più accattivanti e consolatori, e più accessibili rispetto alla poesia; arte, quest’ultima, per nulla vana, ovviamente, almeno nell’ampia comunità iniziatica dove s’irradia come un’onda lunga, condizionando impercettibilmente esistenze e Weltanschauung, e non solo poetiche. Leggendo in filigrana questi versi, ci sembra dunque che proprio a questa vocazione abbia voluto rispondere l’autore. E’ dato però cogliere, nella raccolta, valori non meno importanti e connotanti, a cominciare dall’intertestualità e multidisciplinarietà, attraverso una perizia attenta finanche alla titolazione delle sezioni del libro (Antefatto, Biscrome, Salmi, Pitture, Finale ma non troppo, Variazioni e Commiato)» (pp. 9-10).

La poesia di Vitagliano è un’immersione nel profondo del liquido amniotico della Storia, vicenda umana che si fa vita ed espressione feconda della volontà di continuare a dire, a recitarsi e a farsi conoscere come vera. Le parole sono forme espressive di un rapporto corpo a corpo con una realtà che vorrebbe, invece, sfuggire, farsi immagine, icona, pura rappresentazione estranea ed esterna. Al posto della zuppa di pomodoro in solido, l’immagine della scatola che si propone come oggetto artistico, espressione aliena di un corpo che, i

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nvece, ha ancora bisogno di un connubio diretto con il reale. Lo stesso vale per il corpo levigato e ormai scomparso di Marilyn che da pelle satinata e forma fluente della bellezza diventa unidimensionale sporgenza di stoffa e colore – al posto della porosità e della confluenza del corpo c’è l’icona e la sua sconvolgente nullità. Marilyn non è più un corpo ma una forma che svanisce nel vuoto nel momento in cui non è più provata e verificata sullo schermo o sulla parte del museo in cui viene esposta. Il corpo viene espropriato dal suo spazio.

La poesia, per Vitagliano, corre questo pericolo – diventare forma amnesiaca del presente, confitta in un passato impotente a trasferirsi nell’alveo pulsante del presente.

«La poesia è il guscio del mondo. La parola è il guscio del mondo. / Il mondo parlato è seduto / sull’uscio bagnato tra / il corso del tempo e / il luogo del vuoto. // Il vuoto del tempo / è il silenzio del mondo. / Il mondo dei corpi che scarta / l’involucro opaco del / nostro primordiale elemento. / Il dialogo dei volti / è il sangue del mondo. / Il sangue che affiora sotto / la pelle opalina dei / nostri umani discorsi. // Alle nostre parole esangui / successe col verso il / roseo incarnato del tempo» (p. 69).

Tra Tempo e Spazio, tra vuoto del vissuto (il tempo) e vuoto della vita (lo spazio), tra vuoto dell’esperienza reale e vuoto delle parole non c’è possibilità di tregua. Le parole corrono a salvare il mondo dalla sua possibile desertificazione, dal suo probabile esaurimento. Ad esse si ricorre per evitare che tutto si svuoti e perché il mondo rimanga in piedi e non si sgonfi come un sacco privo di contenuto o di sostanza reale. Parlare significa dare consistenza ad un mondo che non ne ha già più:

«Perché scrivo?. Beat – i quelli / che seguirono al silenzio / o alle voci solitarie / o scoprirono il linguaggio / delle strade e delle città. / Ci fu sempre per loro / una parola da aggiungere. / Adesso sarà l’afasia / la nostra poesia?» (p. 42).

Vitagliano ha paura di essere costretto a tacere dall’impossibilità di provare più quelle emozioni e quei sentimenti che imporrebbero al poeta di scrivere. L’afasia è la morte delle menti (“ho visto morire le menti migliori della mia generazione” – come inizia profeticamente l’Urlo di Allen Ginsberg) e la poesia non può sopportarne la prospettiva. I beats (battuti e beati!) avevano scoperto la natura metropolitana della poesia, il suo essere compatibile con la vita in strada o in viaggio o nel sogno (naturale o indotto). Parlare non era un problema, allora – oggi sì. A che serve, infatti? – si domanda Vitagliano. E soprattutto a chi servirà?

«Finis terrae. Ecco il mattino / a metà del viaggio a ritroso / fatta la sosta nel secolo scorso / m’ingegno di fronte all’ignoto. // Ignorami, passato / perché duole e ti duole / il corpo di felce / sopra un greto disfatto di pene. / Tieniti la luna, / che io mi prendo il giorno, / che qui è così corto / per dare l’incipit al mondo. // Conto all’inverso i passi che restano / lungo il collo marino del sonno / dove l’occhio esanime si specchia / senza darsi nome. Dove spiro ogni giorno, / e ogni giorno mi desto e non lo so(gno)» (p. 77).

La parola, secondo Vitagliano, nonostante tutto, è ancora capace di “dare l’incipit al mondo”. Senza fare troppe concessioni al passato e alla tradizione, la scrittura oggi marcia ancora per la sua strada e cerca di affrontare l’ignoto che la spaura ma che, nello stesso tempo, lo attira. La luna, retaggio romantico dei percorsi lirici del tempo ormai andato, viene riposta nel deposito degli armamentari umani non più efficaci e non più utilizzabili mentre il sole sorge ancora e rappresenta la capacità aurorale della scrittura a far sorgere (o risorgere) ciò che sembra finito, spento, traversato invano. La finis terrae costituisce questo scontro che conduce ancora una volta verso ciò che non si conosce né si può attingere partendo dalle retrovie in cui il gioco è più facile ma inerte o scontato. Scrivere è ancora sognare – come avrebbe voluto il principe Amleto della morte – ma senza dormire, fuori dal circuito inesorabile e implacato del sonno. L’importante è continuare a parlare – sostiene Vitagliano –, ciò che conta di nuovo è dare parola a ciò che non si dà nome. Se la Storia sembra finita, non lo sono le storie di chi l’ha vissuta per raccontarla:

«Fine della Storia. Volevamo essere statue, / solo solcate / dalle lacrime degli / sconfitti / e mosse dal ritmo / dei loro passi. / Siamo solo / acqua smarrita, / impotente / alla forma / e al colore / di sordide bottiglie. / Siamo solo / lische lasciate / sulla polvere / di un mare a secco. / Lontano dal mare. / Senza più epica. // A consultare le nuvole. / A invocare i sassi» (p. 15).

Se il Passato non rivive più, il Presente pretende ascolto. L’amnesia del poeta è la sua negazione del silenzio, la sua necessità di continuare a dire, rituffandosi nel liquido amniotico da cui proviene.

Essere statue non è stato possibile. Ritornare a parlare lo è. Il resto è silenzio…

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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)



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