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di Giuseppe Panella*
L’introduzione di Marco Lodoli è simpatetica e molto toccante ma precisa. Dopo aver descritto il suo soggiorno a Parigi in qualità di giovane artista a disagio ovunque ma speranzoso di scoprire il segreto di ciò che aveva caratterizzato la grande stagione delle avanguardie storiche, in primis il Surrealismo, lo scrittore romano racconta ciò che avvenne al suo ritorno a Roma:
«Ebbene, tornato a Roma, non ricordo come e perché entrai in contatto con un gruppo di giovanissimi poeti e pittori, i quali cercavano di aprire una galleria d’arte e forse anche una rivista. Pino Salvatori, Felice Levini, Mariano Rossano erano gli artisti, Claudio Damiani, Gino Scataghiande, Giuliano Goroni e poi Beppe Salvia i poeti. Avevano trovato un locale in via Sant’Agata de’ Goti al quartiere Monti, e lì ci vedevamo per discutere di tutto e di niente. Intorno la città ardeva senza tregua, scontri, ferimenti, uccisioni, le parole astratte della politica trasformavano concretamente la vita di migliaia di giovani, spesso la stravolgevano. In mezzo alle macerie del tempo, Damiani parlava di Petrarca, di Leopardi, di Saba con la sua voce lieve, con parole che io non capivo bene. […] Quella stagione ebbe il suo punto finale in un giorno di primavera del 1985, il giorno in cui Beppe Salvia si uccise. Avevamo partecipato tutti a “Braci” e a “Prato Pagano”, due riviste che oggi non si potrebbero neppure immaginare per quanto erano fragili e profonde, prive di ogni superbia ideologica, voce di un piccolo gruppo di ragazzi che s’allontanavano dalla furia cieca dei linguaggi astratti per ritrovare la dolorosa dolcezza della lingua. Questa era la missione di quei fogli, all’inizio quasi francescani nella loro modestia, poi un po’ più eleganti, ma sempre distanti dal clamore e dalla protervia avanguardistica. […] Claudio leggeva Pascoli e Orazio e Caproni, sdegnava ogni moda letteraria, cercando una lingua che potesse parlare di ogni cosa senza mai tradire il vero. Guardavo a Claudio e Beppe come a due fari potentissimi: più nero Salvia, più chiaro Damiani. E anch’io a poco a poco mi spogliavo di ogni ridicola artificiosità, finalmente convinto della fragilità assoluta della vita, della sua tragica bellezza» (pp. 7-9).
L’indugio sulla nota introduttiva di Lodoli all’antologia di poesie di Claudio Damiani da lui curata può servire a chiarire i caratteri, per così dire, originari della scrittura poetica di un autore che non ha mai rinnegato l’assoluta semplicità classicistica della sua proposta di uno stile limpido e composto nella pur rilevante forza espressiva del suo dettato lirico. Il fatto è che nei testi lirici proposti in questa antologia predomina un tono calmo e mai concitato, eppure caldo ed emotivamente forte. La sua “tenerezza nei confronti del mondo” di Damiani gli permette di accettare anche quello che potrebbe risultare inaccettabile e non riducibile alla parola della poesia.
Inoltre, il suo amore per i luoghi si trasforma in una sorta di elegia per la loro non mutevolezza affidata non agli uomini ma alla loro capacità di conservarne la memoria. Un testo contenuto in Fraturno che è del 1987 (1) e che viene definito caratteristicamente come Ode, ha tratti fortemente atteggiati in senso classicistico. Non si può, infatti, non ricordare l’incipit di un celebre testo di Orazio, che si trova appunto dalle Odi, Carmen III 13: O fons Bandusiae, splendidior vitro, / dulci digne mero non sine floribus / cras donaberis haedo…(e non a caso Licenza, località situata nelle vicinanze del lago di Fraturno e citata successivamente nella poesia di Damiani, sembra essere stata la sede della fonte omaggiata da Orazio quale “più splendente del cristallo”):
«Fraturno tu le tenere / canne che le tue rive / mute cingono crescere / vedi, la viola timida / spuntare tra l’erbetta, / gli alberi intorno mettere / la veste a primavera / e levarsela il verno, / e i fanciulli festosi / da Percile o Licenza / con le camere d’aria / scherzare alle tue rive / finché dura la luce. // Tu Fraturno ogni cosa / vedi a te intorno nascere / e vivere e morire / da sempre e tu sei uguale / dolce specchio gentile; / tu rimani seduto / sempre nella tua conca…» (p. 28).
La poesia di Damiani nasce, dunque, da un sentimento molto forte di volontà di armonia e di fusione con la natura nelle sue forme più elementari e, per questo, forse, migliori, più belle. La bellezza del paesaggio e delle sue componenti originarie permette di cogliere il senso della vita e della sua ontologica quanto straordinaria capacità di durare “in ogni tempo” (p. 29).
Questa consapevolezza lo porterà a parlare di una possibile compresenza dei morti e dei viventi lungo una catena di vite che sono sempre tutte reali e tutte congiunte dalla loro dipendenza reciproca nello spazio e soprattutto nel tempo:
«”Nonno” gli chiesi “com’è che l’isola, anziché star ferma, / si muove, come galleggiasse sull’acqua?”. / Ma il nonno stava a guardare dei passeri / che rissavano nella chioma di un pino / e non aveva sentito la mia domanda. / Guardando sulla riva mi sembrava che l’isola si fosse fermata. / “Vedi” disse “ noi abbiamo tutti vissuto qui / prima che tu nascessi” e vedevo mio padre / che stava parlando con una persona in cima al sentiero / “ tu sei venuto a visitarci in sogno / e adesso ci hai conosciuti tutti. L’isola non cammina, / è il tempo che si muove, e così nel tuo sogno / l’isola che si muove significa il tempo. / Quello che devi sapere è questo: questo tuo sogno è vero! / Noi siamo tutti uniti. Quando tu morirai / ci ritroverai tutti qui, ognuno che hai conosciuto / lo rivedrai uguale, e questa terra a te cara / la ritroverai intera. Tanto più l’avrai amata, / tanto più la ritroverai identica, / tanto più l’avrai sentita come tua patria, / tanto più sarai vicino ai padri”» (p. 84).
La citazione precedente viene da L’isola natante, una delle poesie più dirette e più affascinanti contenute in Eroi, una raccolta uscita nel 2000 (2). L’idea della continuità temporale vissuta in sogno che permette di non cogliere elementi di differenza (se non graduale) tra natura e uomini e, tra di essi, anche tra le generazioni passate e future permette al poeta di San Giovanni Rotondo di espandere la propria poetica in senso generale, come una sorta di previsione onirica di ciò che deve ancora venire, senza però la necessità di aderire a una visione del mondo genericamente panteistica o anche soltanto vagamente naturalistica, conservando, in tal modo, uno spazio a sé e alla propria scrittura che non è soltanto il frutto di una scelta individualisticamente connotata ma abbraccia tutto il suo mondo. Il tempo fluttuante del sogno qui si congiunge allo scorrere infinito (pur se non invano) della vita che congiunge i morti ai viventi e quelli che sono già passati a coloro che verranno. In questo flusso ininterrotto, tuttavia, il poeta non rifiuta di scavarsi uno spazio di riflessione poetica e di sosta meditativa come rifugio dall’ansia e dall’angoscia della storia che potrebbe infrangere la bellezza e la possibile beatitudine goduta nel giardino della propria vita. Anche per Damiani (come per il protagonista di Being There, tradotto in italiano come Presenze, di Jerzy Kosinski) Tutto quello che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano e saper vivere come esse sanno fare da un tempo immemorabile e immemoriale :
«Io so solo stare solo / in questo giardino, / so ascoltare gli uccelli sui rami / e i ronzii degli insetti attenti, / so sentire l’erba che cresce / e la stagione che avanza, / so sentire quanto tempo è passato / e quanto ancora ne dovrà passare, / so vedere come è pulita la ghiaia / nonostante quello che è successo, / so sentire i tuoi passi che si avvicinano / di bambina e di donna, che non fanno rumore, / so sentire la mia famiglia spezzata / tagliata con un’accetta / poi rinata come i getti ai piedi dei tronchi, / come le code delle lucertole» (p. 105).
Il luogo nel quale vivere e di cui godere il silenzio e la dolcezza, del quale conoscere il passato e il futuro che si avvicina, nel quale abitare con serenità e con amore è, quasi ovviamente, la poesia e quasi altrettanto ovviamente è la dimensione di una scrittura che sembra rifiutare l’ansia e la deriva della riduzione della parola a proclama ideologico o a urlo di rabbia e di rivolta individuale. Il poeta non grida, non piange, non si dispera, non si concede alle passioni elementari dello spirito per inseguire una dimensione riparata, assorta, simile all’ hortus conclusus di classica memoria:
«Allora dico: non ci immaginiamo cose tanto strane / ma guardiamo quello che ci sta vicino, / lasciamoci ferire dalla sua bellezza / e nella sua sapienza riposiamo il cuore» (p. 164).
Come sempre succede, in effetti, per chi non si attende il dolore ma il sogno (o la sua realizzazione) qualcosa di nuovo accadrà…
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NOTE
(1) La raccolta Fraturno è stata pubblicata dall’editore Abete di Roma.
(2) L’editore di questa raccolta (che costituisce sicuramente uno spartiacque nella produzione di Damiani) è Fazi di Roma.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)