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di Giuseppe Panella*
«[…] Le colpe di nessuno sono accumulate / per il disgusto collettivo fra i canneti / rifiuti con nomi e cognomi / che nessuno osa pronunciare / che nessuna forza della Legge / potrebbe mai indagare. // So di essere un poeta indisciplinato / e scrivo versi brutti raccontando le brutture / so d’aver deviato / dileggiando i canoni estetici: / scrivo corsaro e veloce in prosa / versi che mai avrei voluto scrivere / se altra fosse stata la coerenza / fra l’ideale e l’esperienza; // ma l’esistenza qui pare un beffardo / rifiuto d’ogni decenza / e anche il volto di Dio sembra fuggire / nella luce del mare avvelenato. // Vorrei scrivere che ho trovato la parola / quella sola che raddrizza ogni stortura / ma sono coerente / col mio niente che domanda e tace» (pp. 65-66).
La poesia nasce per volontà di dire e di proporre, non per effetto del puro sentimento della bellezza che si espande e dilaga attraverso le parole. L’obiettivo è naturalmente quello di coniugare stile alto e contenuto civile e polemico anche se il risultato non vuole essere soltanto il riverbero estetico del confronto e della lotta contro chi si ritiene un nemico da ricacciare nel passato in nome di un futuro migliore. Nonostante la violenza espressiva, nonostante il dolore e la solitudine della denuncia, nonostante la morte e l’evocazione del lutto per chi ha lottato e non è stato adeguatamente aiutato nel suo sforzo di civiltà, l’obiettivo della scrittura di Lucini è pur sempre (e deliberatamente) un’apertura etica nei confronti della speranza.
«Dagli anni più cupi del novecento / l’abbiamo chiamata a gran voce: / dove sono quelle labbra, quelle voci? […] Così andiamo ogni giorno improvvisiamo / nelle fabbriche nelle campagne / con l’ansia schizoide della normalità / culliamo il sonno del vecchio mondo / con cura maniacale / ogni cosa al suo posto, la vera / democrazia misurata a ecoballe / acquedotti funzionali piani energetici / progressi medici e scientifici / stile di vita e senilità felice / incapsulati nell’immanenza / in pochi anni sperperati i millenni / sperperato ogni sentire vaghiamo per questo / piccolissimo vecchio mondo creduli / ad ogni voce, incapaci / di leggere i segni; / la morte ci succhia come una piattola / e ci rincuora // – la morte è il solo dio che adoriamo: democrazia libertà, tutto il sapere in uno / sfacelo infinitesimo – » (pp. 36-37).
Come lo stesso autore spiega nella sua Nota finale, il punto di partenza viene dalla Bibbia dell’Antico Testamento ma il suo proposito autentico è quello di parlare dell’oggi e delle sue contraddizioni mortali. Nelle nove sequenze poematiche che compongono il libro delle Sapienziali, Lucini parte da una dichiarazione che si può ritrovare in qualcuno dei testi più significativi che compaiono nel più antico Libro dei Libri per poi approdare quasi spontaneamente a una serie di riflessioni sul passato e sul futuro passando attraverso le rovine del presente. La lingua poetica usata, infatti, non stride nel contrasto con l’apparente arcaismo del punto di partenza ma si integra in esso per raggiungere un tono profetico che vuole essere invettiva insieme e lamentazione fino a lambire la soglia apocalittica del rifiuto totale. Sembrerebbe che non siano Giobbe o Qohèlet (il libro sulle vanità umane attribuito a re Salomone) o i Proverbi o Siracide e il suo giogo i testi da privilegiare quanto le profezie-incubo di Geremia e il suo invito ad accettare la sottomissione come forma punitiva di accettazione del volere divino. Eppure nel rifiuto di scrivere una vana quanto impietosa geremiade sul destino dell’età contemporanea fondata su una tecnologia imperante che nulla più concede all’umano e su un rifiuto della qualità etica della vita e delle sue scelte, Lucini conferma la sua vocazione alla possibilità della speranza, della trasformazione, della testimonianza non solo in senso cristiano ma soprattutto laico e ri-fondativo di una soggettività più libera e meno deformata dal peso di un inutile vocazione utilitaristica.
«Lucini si è posto un compito arduo: è possibile trovare nei miti, nei racconti, nei canti della Bibbia nuove spinte ed ispirazioni per potenziare la presa della poesia sulla realtà del nostro tempo? Ed ha dimostrato che è possibile. I problemi del mondo d’oggi possono essere interrogati in chiave biblica poiché sono iscritti da sempre nella parola di Dio, fissati nelle narrazioni e nelle profezie che la Bibbia ci ha tramandato da più di duemila anni. Il progetto di Lucini può sembrare azzardato e stravagante ma così non è. L’utopia biblica della salvezza e della redenzione deve confrontarsi con l’orizzonte mondano, e dunque perché non fare il grande salto dalle visioni di Isaia, di Giobbe, dell’Ecclesiaste e dei Proverbi fino ai mali del nostro paese? Questo provoca un confronto stridente e serrato, di insostenibile durezza, tra le vette sublimi del pensiero e una convivenza umana lontana da un livello accettabile di giustizia e di misericordia» – ha scritto utilmente Leandro Piantini nel blog che porta il suo nome e che costituisce la sua “finestra sulla letteratura”.
In questa necessità della redenzione Lucini si affianca non solo alla poesia cristiana del rifiuto della rassegnazione (quella di Davide Maria Turoldo – come pure nota Piantini) ma anche alla volontà della lotta contro l’ingiustizia che aveva caratterizzato personaggi come don Milani (cui il poeta sembra essere particolarmente legato da più di un motivo). Ma la redenzione e la salvezza sono un progetto di lotta aspra e dura, non un dono calato dal cielo e questo vale soprattutto per l’umanità sottomessa a un “barbaro dominio” come quello delle popolazioni meridionali schiacciate dalla malavita organizzata e ad essa sottoposta da regole arcaiche fattesi tecnologia moderna (come ha ben mostrato Roberto Saviano in molti suoi testi-reportages).
Lucini crede nella forza di denuncia che la poesia può raggiungere se manovrata come una frombola anche in mano a un minuscolo Davide. Il Golia della modernità dispiegata e trionfante può essere abbattuto (forse) dagli “uomini di buona volontà” che sapranno opporsi ad esso utilizzando la loro capacità di sentire, di amare, di sognare, di non lasciarsi incantare dalle luci menzognere, attraenti e bellissime dell’esistenza mancata di noi tutti. Così scrive in Visione, uno dei testi più lucidi, devastati e polemicamente accesi della raccolta:
«Rinchiudi l’arte in carceri e fortezze, / abradi i simboli dalla architravi / rinneghi alle parole ogni senso / e le disperdi come cenere / per concimare i giardini dell’effimero. // Ma infine l’inverno ti tormenta / e non hai più parole; tutte le opere / sono già concluse e non hai più ali, / le ha bruciate il sole e precipiti / verso l’istante dell’impatto; // in questo tragitto i secoli ti vengono incontro / con antiche domande e tu non sai rispondere: / cinquecento generazioni bruciate / in un istante dalla tua superbia / un grido levano alla tua scienza / e tu non sai rispondere. // C’è un tempo per il giorno / c’è un tempo per la notte / c’è un tempo per forzare gli occhi attraverso la caligine / tastare il sentiero col bastone, fidarsi delle stelle / procedere adagio nel silenzio, fermarsi nell’estasi / del firmamento a cercare una luce / nuova. // l’aurora dalle guance rosate / che ogni cosa discerne / il lupo che gioca con l’agnello / e la pantera col capretto. // c’è un tempo per il dolore e uno per la speranza / e fra di loro il tempo dell’attesa e dei fantasmi / che necessità di calma e di prudenza / curando che la fiamma non si spenga, / non ci sorprenda l’alba / falene rinsecchite nella brina» (pp. 28-29).
C’è un’indubbia potenza evocativa in questi versi apocatastatici: il richiamo al testo biblico salomonico si fa accorato richiamo alla responsabilità terribile e inesitata del genere umano e la pace finale che viene invocata si salda con il registro dell’utopia che resta l’unica possibilità di speranza per quegli stessi uomini che paiono voler correre con voluttà verso una generale autodistruzione che li fa somigliare a dei lemming senza coscienza e sostanza etica.
IL mito di Icaro si salda così alla vanitas descritta nel Libro per eccellenza per mettere chi legge di fronte alla necessità di una risposta da dare alle generazioni che verranno. Ma verrà il nuovo giorno a rischiarare la notte in cui l’umanità sembra solo saper sprofondare ohni volta di più? Il mito del progresso ottenuto attraverso l’aumento esponenziale delle forze produttive e della potenza della tecnologia (mito rinascimentale per eccellenza basato sulla fiducia nelle proprie possibilità da parte di chi crede di essere ancora il faber quisque fortunae) sembra essere decaduto. La salvezza avverrà (e verrà) dal cuore degli uomini ma esso “è ingannevole più di ogni cosa e incurabile. Chi lo può conoscere?” (Geremia, 17, 9).
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo(Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)