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di Giuseppe Panella*
«SAN PIETRO A TUSCANIA. Lento m’accosto al tuo occhio / di luce / che spazia l’infinito. // Dicono i tuoi pettini di luce, / vento d’arte di vetro, / il saluto commosso e fedele / dell’Apostolo al Signore d’estate, / al plenilunio / tra macchine in sosta» (p. 23).
I” pettini” di luce della chiesa sono l’aura che la poesia contribuisce a circonvondere alla sua bellezza strepitosa. Scrive Emerico Giachery nella sua ampia e compatta Prefazione al libro di poesie di Carlucci che “la Tuscia ha dunque trovato il suo poeta” e che inoltre:
«L’evento di un incontro così fecondo e pieno tra un ampio lembo di Etruria felix e un “cantore” che lo fa esistere poeticamente con tanta emozione e suggestione, merita già di per sé un grato saluto. Pascoli volle essere il poeta del piccolo mondo della terra barghigiana, che continua ad “esistere” in buona parte per suo merito. Verso la fine del più celebre dei suoi scritti di poetica, Il fanciullino, afferma che il poeta lascia, in ciò che è stato pervaso dal suo sguardo creativo, “più vita di prima”; lascia, nella natura che ha nutrito la sua parola, “un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo”. La pur attraente e onorevole qualifica di “poeta della Tuscia” dev’essere inteso, comunque, come punto di partenza discorsivo, non come un limite» (p. 8).
Il paesaggio bello e doloroso della Tuscia esalta le qualità di poeta di Carlucci e lo rende come spossato, indifeso, quindi tragicamente proteso tra bellezza e dolore in attesa di una sintesi, di una sequenza lineare di abbandono lirico che, come per l’amato Cardarelli, tuttavia non può venire e si infrange contro le scogliere dell’inusitato e irrealizzabile ideale della conciliazione definita tra umano e divino. Le sue descrizioni ritagliano spazi di sacro e incidono con il bulino della parola purificata, quasi essiccata dal superfluo dell’aggettivazione e del ricalco, su un paesaggio di cui vogliono essere l’esegesi:
«NUDO SPLENDORE DI PIETRA. Tra queste ogive ove la luce, / scalza, s’accampa / nuda pungendo l’infinito, / io ritrovo, leggero, l’Abisso / del silenzio che invade / le navate del cuore / orante nell’ombra l’Assoluto / che tra le volte, a volte si smaglia. // Salga più lenta, al rintocco dei Vespri, / anche la mia voce orante, tra queste volte, / sublimi d’umiltà, / oggi invase dalla sacra indifferenza / della fede degli altri» (p. 18).
La poesia qui si incontra con il silenzio e la sua forza espressiva si misura con l’inesprimibile che sorge, incoercibile e leggero, dall’Abisso del sacro e della richiesta assoluta di risposta di fronte alla domanda fondamentale su ciò che è vero e ciò che, invece, è indifferente alla richiesta di sapere ciò che conta. La luce del passato illumina così, in maniera inconfutabile, il presente in gioco come posta destinata ad essere vinta soltanto da chi capisce che non si tratta di una scommessa rispetto alla verità ma una certezza rispetto alla valutazione di ciò che è bello e che è capace di parlare alle coscienze profonde degli uomini. Il silenzio qui corrisponde a una parola che si diffonde e si impone con il suo solo essere e trasfonde nella natura lo spirito che lo informa. Nella sublimità esibita della potenza della pietra riposa la capacità comunicativa dell’umiltà dei costruttori delle chiese da essi realizzate in tutta la loro formidabile altezza spirituale. Essa svetta e si esalta in senso non solo materiale e in essa si consuma il trionfo della loro forma terrena manifesta. Quest’ultima non esaurisce il cammino ed esalta nella sua longanime continuità la capacità di durare dei sentimenti e delle fedi. Nelle chiese della Tuscia, allora, la voce della poesia si esalta e si rastrema in un impeto assoluto di felice bellezza. La Tuscia come forma di vita spirituale (così come Thomas Mann aveva definito autobiograficamente la Lubecca della sua nascita e della sua infanzia) è anche possibilità inedita della poesia e per la poesia – mostrare il mondo a partire da essa significa esaltare la bellezza in nome di ciò che non può tramontare né morire ma solo trasmettere l’ originale solidità della sua esistenza. La solidità delle mura esalta la fragilità del verbo poetico:
«PAESAGGIO. Arde la pupilla e si disseta / nel suono di morte rovine / umide di vento / chiare di paesi consumati da secoli / sotto l’implacata luce / d’accecante ora meridiana. // Infuocata s’allarga all’eco dei venti / la piana dell’esilio disumana / terra madre di silenzi / vestiti di scura pace / che tra i rovi si punge di mare» (p. 93).
Il paesaggio è desolato come la terra che lo ospita. Le rovine sono l’unica presenza dell’uomo che vi è rimasta. In essa la vita costituisce una forma rovente d’esilio rispetto all’armoniosa esistenza desiderata e rincorsa. Eppure anche nella piana assetata e resa accecante dall’avvento meridiano del sole soffierà presto un venticello tenue e salvifico di speranza: il mare non è lontano e così l’istinto a partire per cercare salvezza e – poeta come perenne ulisside che cerca senza trovare la meta – rientrare a casa per poi ripartire. L’eco della poesia lirica cardarelliana qui è forte e si mescola all’istinto leopardiano della rammemorazione e all’approccio tutto montialiano alla descrizione “pallida e assorta” del “male di vivere”:
«GABBIANI. Oggi il mare è una tavola / nera di strida / alate di gabbiani. // Vada il mio cuore / stasera / più lieve di malinconnia / leggero volando / tra questi pionieri / bianchi dell’infinito / a te pensando, Cardarelli, / anima burbera, / cirro del cielo di poesia» (p. 128). [1]
Cardarelli verrà poi visto (e descritto) come un solitario e dolente cantore di un mondo che è da tempo scomparso e continua a vivere solo nei suoi versi spezzati scabri e teneramente innamorati di un paesaggio culturale fatto di bellezza e di malinconico abbandono alle possibilità ancora presenti di una parola significativa e capace di cogliere l’obiettivo del suo sentimento dell’umano:
«RITRATTO DI VINCENZO CARDARELLI. Di tristezza un cappotto / aspro fino a far male [2], / dolente fabbro / di segreti stridori, / anima sola / ebbra d’infinito» (p. 129).
In effetti, la Tuscia (come aveva già notato Giachery nella sua Prefazione) assomiglia molto a questo ritratto del poeta di Corneto Tarquinia con le sue montagne scabre e assolate, con la sua spiritualità tradizionale e assorta, con il suo anelito d’infinito frustrato dal tempo trascorso e lo spazio inclemente e irredimibile di fronte allo sguardo, con la sua volontà di dolcezza frustrata e riportata all’asprezza del dolore subito e introiettato.
La poesia di Carlucci, allora, si nutre di una volontà assorta di coinvolgimento con il mondo che gli sta di fronte, di stupore per la sua pietrosa e terrificata bellezza, di elegia per il suo cupio dissolvi di fronte al passaggio storico che sta affrontando (e che lo svilisce banalizzandolo).
«VITERBO. Sei, Viterbo, / come un fiore strano / di vicoli bui / segnati dall’ombra / delle torri, delle chiese, / dove segreti Cristi / segregati vaniscono / nel martirio luminoso / dei ceri di fedeli / incerti e sorpresi / dal rito quasi pagano / di una ritrovata rosa / di luce» (p. 27).
Le “città del silenzio” (per usare un’espressione cara al D’Annunzio maggiore, quello di Elettra del 1903) della Tuscia poetizzate e rese visibili dalle metafore di cui si nutre la poesia di Paolo Carlucci si stagliano qui sullo sfondo fatto di luce e ombra della religiosità di un passato che si rivela ancora radicato con forza nel presente della mente. I luoghi e gli edifici che Carlucci descrive nella sua proiezione lirica e mentale sono, dunque, “paesaggi della mente” che vivono nell’ottica della poesia un’ultima e ostinata epifania della bellezza trasformata in pietra e in sogno per illuminare ancora il loro presente senza tempo.
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NOTE
(1) La poesia di Cardarelli dallo stesso titolo recita così: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido / ove trovino pace / Io son come loro, / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca” (V. CARDARELLI; Poesie, prefazione di G. Ferrata, Milano, Mondadori, 196613, p. 84).
(2) Si allude qui allo spesso capotto di lana in cui Vincenzo Cardarelli appariva avvolto per ragioni di salute le poche volte in cui lasciava l’albergo in cui abitava a Roma.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)