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di Giuseppe Panella*
Mihaela Cernitu scrive in italiano ma è nata a Craiova, in Romania. La sua lingua madre in cui accuratamente poi traduce i suoi versi italiani è il rumeno, una lingua simile e dissimile in una volta all’italiano che usa per la sua scrittura. Il suo sguardo poetico, dunque, è sempre quello dell’osservatore, di chi guarda dalla finestra il mondo in cui si è ritrovata a vivere e che spesso non riesce a comprendere totalmente. L’oggetto della sua poesia è un’Italia in cui è venuta a vivere e di cui ha prescelto e prediletto cultura e vita quotidiana; la lingua che usa per farlo è un tentativo di conciliare esigenze culturali e consumo usuale delle parole necessarie per farsi comprendere e per comunicare. La poetessa vive allora tra due mondi: quello della scrittura poetica che frequenta abitualmente ma che non esaurisce la sfera delle sue osservazioni umane e culturali e quello della vita quotidiana da cui trae gli spunti per la sua produzione lirica. Scrive, infatti, Franco Manescalchi nella sua precisa Presentazione del volume di Mihaela Cernitu:
«Ma, direi, il pregio essenziale di questa raccolta è di cogliere il microcosmo nel macrosmo e viceversa, ovverossia la capacità di operare la magia particolare del poeta che consiste nel creare un’immagine doppia, in dissolvenza per cui ciò che è detto non è soltanto ciò che è detto, e ciò che è scritto non è soltanto ciò che è scritto. In questo modo il privato, in quanto tale, si fa pubblico e il momento muove nella dimensione dell’universale. La poetessa può, in questo modo, fermare sulla pagina l’inchiostro del giudizio verso personaggi che si pongono fuori dall’umano (l’affarista, lo zuzzurellone) con un moto di coscienza tipico della poesia dell’Europa orientale del ‘900, e nello stesso tempo registrare i suoi lampi immaginifici, le sue riflessioni contemplative su un’ora del giorno, una città visitata, il mondo delle proprie amicizie, uno spazio domestico che diventa colore, un suono che diviene musica, o – per concludere – ubiquità poetica fra due luoghi lontani» (p. 4).
La scrittura della Cernitu si configura così come un crocevia tra due mondi: la comprensione dei fatti della vita quotidiana stempera in una malinconica accettazione dello spaesamento in cui si trova talvolta a vivere mentre la capacità di sognare e di concedere delle fughe verso altri mondi e altre forme di esistenza possibili si raggruma in immagini vivide e coerenti, in impressioni ferme e attente, in forme di condivisione e di conoscenza della difficoltà di vivere:
«POMERIGGIO IN CASA. Pioveva stamattina, adesso ha smesso, / fa freddo: fuori è autunno, in casa siamo in due, / ognuno con il suo freddo nelle ossa, nel cuore, in sé. / Chiusa in grande silenzio, guardo dalla finestra, / mi saluta un alloro con i suoi verdi-eterni rami, / a dire tutta la verità, l’alloro alto non parla, invece / saluta la mia immaginazione per non impazzire di noia. // Pomeriggio-solfeggio di una sinfonia orientale, / con l’impresario solenne seduto nel mio soggiorno; / divento un quadro-ciclone per me stessa / in una parte insofferente del mondo. / Le cose, le parole, i muri, la camera, le piante / parlano un linguaggio straniero in questo pomeriggio; / non capisco dove ho smarrito la pazienza» (p. 26).
Mihaela Cernitu ama queste sintesi folgoranti, questi corto circuiti tra parole che le permettono di forgiarsi una lingua propria a cavallo tra italiano e rumeno, tra linguaggio colto e lirico e parole più usuali appartenenti al mondo di tutti i giorni, tra situazioni vissute frequentemente e condivise e salti di immaginazione lirica ed esplorazioni nel sogno. La duplice frontiera della scrittura che la abita e le consente di esprimersi si apre così alla sua dimensione onirica e permette a ciò che circonda e costituisce la sfera vitale della poetessa di dialogare con lei, di diventare un personaggio esemplare della sua stessa poesia. Il freddo metereologico si confonde e si raddensa in una gelata interiore che manifesta così la propria natura simbolica e per sfuggirgli non c’è altro da fare che evadere dalla realtà e rifugiarsi nella fantasia e nella trasformazione fantastica di ciò che non piace o di cui si comincia a stancarsi. Seguendo una diffusa tradizione letteraria che ha il suo capostipite in una fortunata lirica di Vincenzo Cardarelli, anche la Cernitu coniuga il proprio omaggio ai gabbiani:
«IL VOLO DEI GABBIANI. Il mio corpo ha un profumo di mare, / di vento, d’autunno, di neve, / di pioggia, di tristezza, di gioia, di buio, / di luce, di te, di domani, / di fiori, di miele, di… pensieri vecchi, di solitudine. // Sento il giorno incolore, / vedo lo splendore della luce eterna, / sento la notte inquietante, / le stelle che tremano nell’aria, / sento la mia vita – un canto nella memoria / degli amanti perduti. // I miei attimi sono gabbiani; / volano sopra i sogni d’acqua. / Volano lontano, chi sa dove / e chi sa perché con tanta fretta» (p. 14).
La mestizia diffusa si fa scatto di colore e di speranza quando il mare e la natura si trascolorano. Anche i gabbiani sono un simbolo (come si può facilmente ben capire) di questa insofferente e prevaricata suddivisione in due dell’anima della poetessa, della sua volontà di essere qui e là, indietro e ancora, in un paese e l’altro, in una vita e l’altra, contemporaneamente. Cercare una via d’uscita per unificare queste due prospettive è l’intento della scrittura poetica, è la sua meta finale.
Qual è la soluzione da adottare in questi casi, qual è il modello di scrittura che la Cernitu si inventa per ritrovare la vena autentica della sua scrittura? Il passaggio verso il futuro è legato alla capacità evocativa, quasi musicale del suo progetto di lingua “di mezzo”, tra italiano discorsivo e omaggio alla tradizione. La molla che fa scattare questo passaggio – la capacità di riallacciarsi all’italiano del suo passato più illustre mescolando con le potenzialità della sua traduzione in e dal rumeno – è il confronto con un mondo la cui influenza e la cui potenza espressive non hanno ancora cessato di esercitare la sua funzione maieutica, il suo impeto innovativo, la sua carica trascinante:
«FRA CRAIOVA E FIRENZE. Soffro di … migrazione, fra Craiova e Firenze. / Respiro in una città, pensando all’altra, / nelle mie vene c’è una corsa-grido, / e la malinconia mi porta da una parte all’altra, / dividendomi per tutta la vita, con una precisione … / promessa all’anima mia inchiodata o liberata; / mi corteggiano le nostalgie, le gioie, le lacrime, i sorrisi. // Vivo fra una parte del mondo e l’altra con un cuore solo, / spezzato dai viaggi, arrivi-partenze, misteriose ore con ricordi… / Spesso mi domando: “dove sono adesso?” al mio risveglio. / Fedele, il sole risponde con un raggio sorriso / e senza motivo mi sento all’improvviso serena nelle mie città. / Craiova è mia da sempre, / Firenze è la città del mio presente» (p. 52).
Il tema della co-esistenza tra due mondi lontani ma, nello stesso tempo, vicini non poteva essere delucidata meglio. L’idea di uno spiazzamento, di una difficoltà a vivere avendo sempre “il cuore altrove”, la mente “spezzata” in due dalla nostalgia, il ricordo come un’ancora che trattiene e che lega la vita impedendo il transito definitivo verso l’accettazione del presente. Insieme a questa caratterizzazione dell’esilio come forma plastica in cui viene modulata la soggettività poetica, i temi della scrittura letteraria di Mihaela Cernitu sono legati all’osservazione di eventi quotidiani (come si è detto), di maschere sociali incontrate per la strada, di riflessioni sulla città che cambia e sui sogni che non si sono avverati e che sono il sale della speranza per l’esistenza che verrà.
La realtà fatta di tanti piccoli momenti-di-essere, di tante micro-situazioni, di tanti spunti narrativi tra il divertito e l’onirico si rivela, alla fine, un caleidoscopio di incertezze, di atti mancati, di illusioni perdute, di incerte e baluginanti forme di verità poetiche.
«SIAMO UN’ISOLA… DI DOMANDE. Siamo un’isola oppure un continente, / chi siamo e dove andiamo tutte le mattine / quando il sole ci manda la sua luce? / Abbiamo inciso nella pelle la nostra sofferenza / e la felicità dall’inizio dei tempi / oppure abbiamo imparato dal vento, dalla pioggia, / dalla rugiada, dal sole, da … tutto quanto? / Siamo una sola persona moltiplicata dal Dio, / siamo miliardi di persone con la stessa strada / da fare fino in fondo dell’orizzonte? …» (p. 40).
Su queste domande epocali ma, nello stesso tempo, minimali che la poesia di Mihaela Cernitu germina e si diffonde, lasciando dietro di sé un alone di luce che è l’aspirazione alla poesia come risposta non definitiva alle domande di fondo dell’uomo ma tuttavia capace di condurre a un nuovo soggiorno di quiete.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)