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QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.82: Una gioia tanto dolorosa… Italo Testa, “La divisione della gioia”

Creato il 17 ottobre 2011 da Retroguardia

QUEL CHE RESTA DEL VERSO n.82: Una gioia tanto dolorosa… Italo Testa, “La divisione della gioia”Una gioia tanto dolorosa… Italo Testa, La divisione della gioia, Massa, Transeuropa, 2010

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di Giuseppe Panella*


La divisione della gioia è traduzione letterale di Joy Division, grande (quanto troppo rapidamente discioltosi nel corso delle sue burrascose vicende) complesso post-punk inglese costituitosi a Salford, nella contea di Greater Manchester, nel 1977. Il nome del gruppo rock derivava dalla denominazione delle baracche femminili dei campi di concentramento nazisti descritti in un celebre libro di memorie, La casa delle bambole, opera di un’ex-detenuto nel lager di Auschwitz che si firmava Ka-Tzetnik 135633 (al secolo Yehiel De-Nur – il suo pseudonimo deriva, infatti, dalle iniziali di Konzentration Zenter seguito dal suo numero personale di matricola tatuato sul braccio sinistro) ed edito nel 1955. Le donne che erano state imprigionate nell’area che portava questo famigerato nome erano utilizzate come prostitute e usate come puri e semplici oggetti sessuali dalle SS e dai soldati tedeschi che stazionavano nel lager. Il testo di una delle canzoni più note dei Joy Division (No love lost) contiene, infatti, un esplicito riferimento al libro.

 In che cosa Italo Testa è debitore alle lyrics di Ian Curtis, voce e leader del gruppo (morto suicida nel 1980 ad appena 23 anni)? E soprattutto che rapporto c’è tra la sua scrittura e le atmosfere musicali (e culturali) proposte, va detto con grandissimo successo di pubblico, dai giovani cantanti delle Midlands? Un celebre brano (scritto e cantato) da Curtis recita: Love will tear us apart (“l’amore ci farà a pezzi”) e diverrà l’epitaffio inciso sulla sua tomba dopo la prematura scomparsa del suo autore. L’amore ci farà a pezzi, allora: e la poesia? Forse anche la poesia può “fare a pezzi” il proprio autore e dividere in tanti momenti separati la sua vita e la sua rappresentazione (visiva ed esistenziale) di essa. Suddividere in tanti momenti descrittivi la narrazione (franta e rastremata) di momenti di vita isolati e ricondotti ad unità dall’occhio dello spettatore per creare un caleidoscopio di situazioni legate in particolar modo a episodi sentimentali e sessuali della storia personale di chi scrive (o di un suo possibile alter ego narrante) risulta la scelta vincente di Testa:

 

«ed è mio il silenzio, mia questa paura, / tu non tremi, tu ti offri, ti esponi / a questo aspettare, a labbra aperte /  sempre più mio il taglio, sempre più pura / la ferita si allarga, non è violenta / la voglio così, la voglio tutta, / portarla come un ricamo di sangue / come la luce stampata sui balconi: //  e poi saranno gli altri a contarci, a dire / che bastava guardarsi, aver taciuto / nel momento esatto, fermi a ripetere / mentalmente il canto, l’elenco dei vivi: //  ma tu ti muovi, non lasci scampo, offri / tutto con un solo gesto, senza rete / provi ogni passo, tenti ogni cosa e ancora / è mio il silenzio, è mia questa paura» (p. 61).

 

Il silenzio, la paura, l’impossibilità di dire e di confrontarsi con l’ Altro e quindi con l’altra figura della diversità e trovare in essa una possibilità di confronto, di dialogo: in questo consiste “la divisione della gioia” che nega a se stessa la possibilità della con-divisione effettiva, della reale dimensione del dialogo tra pari. La visibilità completa e l’espansione conseguente del senso ad essa collegata non sono possibili: l’uno vede soltanto una parte dell’altro, tra di essi è aperta “una ferita” che se pure sia soltanto un ricamo di sangue è, in realtà, la separazione netta che differisce e distingue un sesso dall’altro, un mondo e un modo di confrontarsi con la realtà che costruiscono una differenza impossibile a essere ricolmata, a potersi considerare superata.

La visione in questa sofferente e clinica esplorazione realizzata da Testa, oltre ad essere fenomenologica, è sicuramente fondata su un’impossibilità epistemologica a comprendere la natura profonda, compiuta degli atti da mettere in conto, da analizzare in vista del traguardo finale – nella sua poesia si è di fronte e con rigore estremo alla riconversione lirica di un “ostacolo epistemologico”. La gioia nasce da una possibilità che non è consentita allo sguardo esterno che si ferma prima di essa, come impedita da una barriera di soggettività incerta e illusa dai propri stessi principi esistenziali, dal proprio stesso porsi al centro dello “spettacolo del mondo” – la gioia resta sempre al di là, al di fuori dello sguardo che dovrebbe descriverla:

 

« […] così, se tutte le cose restano / su se stesse, come le colonne / contente di sopportare il peso, / di opporsi alla gravità che incombe / dalle architravi, dai porticati, // o i ciottoli sparsi sulle piazze, /

i coppi scuri, incatramati / tra i lucernai aperti ai venti, / i fori da cui la luce piove, // e poi le griglie sui marciapiedi / impassibili a prender nota / della curvatura delle gambe, del lino che corre tra le cosce, // come tutta stia nel suo contegno, / e accolga indifferente la luce / nella presa rapace dell’ombra / che cade sulle facciate calme, / sull’intonaco che irride i nostri / sforzi di camminare eretti, / restare fermi a un davanzale, // o i tentativi di imitare / la fissità del cielo, di statue / mute che si tengono i gomiti / nell’aria domenicale, oppure /  sotto due file di luci in fuga / posano gli occhi su una tazza / con i polsi, le labbra serrate, / le dita richiuse con fermezza: // anche così si annega l’ansia…» (pp. 21-22).

 

Italo Testa è legato all’idea che il poeta debba anche produrre un pensiero e, oltre che a cercare di ricostruire il mondo, debba essere capace di annettere ad esso anche i possibili imponderabili impenetrabili sviluppi ossessivi del suo esistere: Se qualcuno, mettendole un cuscino sotto il capo,/ Dicesse:“Non è per niente questo che volevo dire. / Non è questo per niente”. / E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto / Ne sarebbe valsa la pena, / Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia, / Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento – E questo, e tante altre cose? – scrive Eliot nel preludio del suo Canto d’amore di J. Alfred Prufrock.

Ne è valsa la pena – sembra ammettere Testa – anche se descrivere ciò che rimane della visione non è la stessa cosa che riuscire a comprenderla o a fondarla.

Il mondo esterno (che qui si costituisce come Lebenswelt) accoglie lo sguardo che lo contempla e lo accetta e resta immobile come un dato di fatto che non conosce alternative. Esso rappresenta integralmente la “divisione della gioia” concessa ai soggetti che lo popolano. Il mondo sta lì ad attendere il passaggio di un alito di vento (uno spirito vivificante) che lo accenda di vita e di sogno, di desiderio e di possibile verità. E’ indifferente – sembra – agli sforzi dell’uomo che lo guarda e che vorrebbe ritrovarne il senso perduto, la dimensione autentica del gesto che lo invera. Così ciò che dovrebbe riconnetterlo alla dimensione perduta della vitalità riconquistata si perde nel tempo:

 

«PERDENDO TERRENO. dillo allora che una verità non cade / sui campi neri, tra i corpi eccitati / ci siamo noi che già arresi ci apriamo / alla luce e al vento che ci uguaglia, / o nient’altro è il tempo se non la spoglia / che preme e svuota il suo dolore / tra le gambe ossute di una donna, / il ronzio delle tue stesse orecchie / quando fulminea ti prende in bocca, / dillo allora che una verità non cade / dentro la gola, tra le labbra serrate, / e siamo noi che dall’alto guardiamo / come impalati, perdendo terreno / sul mondo dei vivi, / in questa morte / che ci precede e in questo buio / cui scendiamo con odio pieno» (p. 50).

 

La Gestalt è così definita dalla sua indeterminazione, dalla sua incapacità a determinare una Gleichnis, una configurazione adeguata, alla dimensione esistenziale che la sua Stimmung vorrebbe determinare. Il “mondo della vita” cede terreno di fronte all’avanzata implacabile della morte, del senso imponderabile della fine, dell’incapacità di ammucchiare se non diapositive della realtà e non penetrarla nella sua fecondità insaziabile. Il mondo descritto da Testa è, allora, un crocevia –lo sguardo che lo riceve e che lo contempla si pone al centro dell’incrocio di tanti e diversi percorsi paralleli di cui non si possono che cercare gli interstizi, le linee di fuga, i momenti in cui la realtà fa capolino e la verità del piacere si fa paladina dell’accettazione frenetica del presente, dell’imperfezione che domina il paesaggio su cui si affaccia la poesia. Quella di Testa, quindi, è poesia della visione che si rovescia in ascolto del brusio del mondo dolente che lo circonda – in esso la sua volontà di perimetrare il dolore, l’ansia, l’impossibilità a comprendere e a giudicare ciò che accade si fa resa e accettazione (“papavero e ginestra” – come si legge a p. 14 dove, in maniera implicita, Celan si confronta con Leopardi in un paesaggio che fa concorrenza al Meteo o ai Conglomerati di Zanzotto) non senza la rabbia e lo “sbadatamente” con cui si chiude la sessione poetica che costituisce gran arte del libro. Testa si conferma così poeta dell’osservazione del “fluito prossimo” e dell’ “ansia che striscia sul fondo” nella vita quotidiana e che rende la vita e l’amore qualcosa che “ci farà a pezzi” (tutti, indistintamente)… come solo le grandi passioni e le grandi verità sanno e costringono a fare.

 

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)


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