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di Giuseppe Panella*
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Aldo Roda, architetto fiorentino trapiantato in Chianti, da tempo persegue con ostinazione e tenacia un proprio progetto di lettura delle dimensioni profonde e segrete della realtà, un percorso che lo ha portato ad esplorare la dimensione alchemica dello studiolo di Francesco I de’ Medici o a leggere gli elementi mercuriali della natura come sostanza solida del Tempo e della Storia. Convinto allievo dell’opera e del pensiero di Joseph Beuys, gli ha dedicato opere in poesia e in installazioni artistiche.
In Rompere la forma del tempo, tuttavia, si è in presenza di qualcosa che appare diverso dalla procedura lirica che contraddistingueva le raccolte precedenti. Qui il testo appare meno “arcano” e, nel contempo, più intriso dei succhi umani della naturalità del vivere pur nel rispetto della poetica geometrica e rigorosa che contraddistingue la sua scrittura.
Nonostante la necessità di tener conto della rivoluzione tecnologica del Novecento e delle leggi fisico-matematiche la sostengono, Roda risulta attento anche a ciò che fuoriesce da quella prospettiva totalizzante ed esclusiva: “Ogni racconto provoca fratture / alterazioni di comportamenti / ritmi personali. Sasso percosso, / il caso sorretto da suono scosso. // Trovo il mio ritratto nel sentire; / l’intento bizzarro altera il percorso / e mi rende partecipe del fatto”(p. 22).
E’ l’esistenza compiuta di queste “fratture” che si insinua la capacità di “perturbazione” dell’Universo (come sosteneva T. S. Eliot nel Love Song of Alfred J. Prufrock) che permette a Roda di spezzare gli equilibri consolidati della vita quotidiana e creare nuove forme di sinestesia poetica. Nello scontro frontale con la prigione che il Tempo sembra essere divenuta, la poesia si conquista così uno spazio di prima grandezza.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)
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