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di Giuseppe Panella*
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“Un giorno sarò morto e intanto vivo” – con questa lucida e terribile affermazione si chiude l’esile ma significativo e pregnante mannello di poesie contenuto in Canti dell’abbandono, opera seconda di Carlo Carabba. Il volumetto è strutturalmente costituito da poche poesie che risultano, tuttavia, tutte dense di prospettive liriche da approfondire, tutte confortate dalla volontà di sondare il mistero della vita e delle sue premesse, tutte fondate su una dimensione pensosa e, nello stesso tempo, coraggiosamente protesa allo sforzo di comprendere e di salvare ciò che resta dopo quello che il poeta definisce il possibile trauma dell’”abbandono”.
Gelassenheit è termine che appartiene al lessico specificatamente heideggeriano e che di solito è tradotto proprio come “abbandono” dagli studiosi più attenti del secondo tempo teorico del pensatore tedesco. Heidegger si confronta esplicitamente e radicalmente con il mondo della tecnica e la necessità di mantenere un rapporto di ambivalenza con i suoi ritrovati e la sua cultura:
«Ma se diciamo allo stesso tempo sì e no ai prodotti della tecnica, il nostro rapporto al mondo della tecnica non diventerà forse ambiguo e incerto? Nient’affatto: il nostro rapporto al mondo della tecnica diventerà invece semplice e sicuro. Si tratterà infatti di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l’abbandono delle cose e alle cose) […] Il modo in cui ci teniamo aperti al senso della tecnica lo chiamiamo: l’apertura al mistero (die Offenheit für das Geheimnis). L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si appartengono l’uno all’altra»[1].
L’abbandono e l’apertura al mistero attengono fondamentalmente alla dimensione dell’esistenza come senso profondo della ricerca dell’Essere (questo per l’Heidegger del saggio del 1959).
In che modo, invece, l’abbandono si configura nella poesia di Carlo Carabba ? Sicuramente come forma di confronto con la quotidianità della vita e con l’ineluttabilità della morte futura prima, con le difficoltà a giudicare gli eventi che rendono complessa e misteriosa l’esistenza poi. Anche in Carabba vige il principio dell’apertura al mistero di cui parla Heidegger in Gelassenheit ma con una differenza essenziale: ciò che appare di difficile comprensione non è ciò che è oscuro o molto complesso in termini oggettivi (come potrebbero essere considerati i prodotti dell’evoluzione scientifica e tecnica dell’umanità) ma ciò che è semplice o primordiale – come l’eclisse di luna o la presenza, enorme e spettrale, di un lampione di periferia. Ciò che è con la sua sola presenza configura un mistero probabilmente irrisolvibile. Nel testo poetico L’eclissi, infatti, il poeta scrive:
«Dov’era la luna? Il cielo era chiuso / dai tetti, e tutti tendevano / la testa e il collo, per vederla meglio. / E anch’io. L’ho vista farsi rossa. / Ho abbassato gli occhi. Un lampione. Solo, / padrone della scena, / pareva lui la luna / in una notte buia. Illuminava / le geometrie essenziali / delle periferie, e mi domandava, / muto, che c’entrava la luna / l’eclissi e il moto dei pianeti, / con tutti quei palazzi / e quelle strade»[2].
Il richiamo – immediato – è al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Leopardi e all’interrogazione con cui stupefacentemente si apre. La contrapposizione tra il lampione e l’astro notturno è certamente quello tra Cultura/Tecnica e Natura ma lo stupore di fronte alla Luna che faceva spalancare gli occhi al “pastore errante” e lo costringeva a interrogarsi sulla finalità e il senso profondo della sua esistenza qui si rovescia su un prodotto artificiale che è tutto opera dell’uomo e su che cosa significhi di fronte alla sua presenza la possibilità dell’esistenza di qualcosa che lo precede e che costringe il mondo che lo circonda a considerarlo un’emulazione del suo funzionamento. Il lampione sostituisce la Luna e si mette in competizione con essa per rendere lo stesso servizio fornito dall’astro ancora in tempi non remoti. Il linguaggio, piano e colloquiale, di Carabba nasconde dietro la sua apparente tranquillità di tono l’angoscia della domanda che viene spontaneo porsi di fronte a un fenomeno certo non usuale ma neppure del tutto straordinario come un’eclisse: a che serve la Luna oggi che i lampioni sfolgorano illuminando il mondo? A cosa serve l’uomo emerso insieme ad essa nel corso del tempo di fronte alla realtà della tecnica da lui stesso realizzata mediante la sua capacità di invenzione, la sua creatività? Lo stupore del lampione qui vale lo stupore del pastore errante nell’Asia e capovolge, demistificandolo, il mito della centralità umana, della superiorità antropocentrica di fronte alla Natura e alle sue manifestazioni.
Anche nella lirica che dà il titolo alla raccolta, gli oggetti sono visti come parte della dimensione umana che si confronta e si scontra con essi[3], da un lato, tentando di metterli da parte, dall’altra vivendoli come una minaccia[4]. Ma su tutto predomina il senso di un’attesa per qualcosa che deve avvenire e che cambierà il senso devastato della realtà circostante, la sua stessa verità consueta e consunta. Il poeta si consegna a questo avvento che suona pieno di speranze:
«Da queste pietre / sospese tra i palazzi dove l’aria / da secoli non cresce / saprò volare. Nell’acqua solamente sta la quiete / e il fresco del tepore a primavera / e nuova vita / inanimata e ricca. La corrente / scivola lentamente scorre e scopre / lontano dalle onde forme nuove / nuove trasformazioni levigate»[5].
La possibilità e la speranza dell’esistenza di queste “forme nuove” che risultano i prodotti di una trasformazione favorevole (un po’ come i “mostri speranzosi”, gli hopeful monsters di Richard Goldschmidt) anche se ancora non è emersa inducono a una sensazione di speranza nonostante il dolore e la sofferenza individuate e scoperte nelle “crepe sui muri”[6].
Allo stesso modo, la richiesta di una “discendenza” – il termine che dà il titolo alla poesia finale del libro – si chiude con un’accettazione del mondo che suona come una convita presa di possesso della sua necessità. La memoria dei sentimenti condivisi è il collante che tiene insieme gli uomini che sono stati con quelli che saranno, i futuri con i pregressi, ma quando quest’ultima verrà meno non ci saranno più ricordi da condividere e le sensazioni che essi hanno provato insieme svaniranno come sempre accade inesorabilmente nel momento in cui si compie il giro di boa definitivo della vita:
«Di me resterà traccia / a lungo nei registri / delle burocrazie statali, / lascerò un segno quasi eterno / nel ciclo dell’azoto. Ma quanto avrò provato / andrà perduto quando / non ci saranno quelli / che su di me hanno pianto – e io su loro. / Succederà lo stesso / ai frutti smemorati del mio seme / e ai loro frutti e ancora / la notte il buio e il freddo / e il sole / di giorno ancora il sole. / Un giorno sarò morto e intanto vivo»[7].
L’ironia del tratto è palese e luccica di un contenuto smalto lirico ma la commozione ogni tanto fa capolino e rischia di traboccare se non fosse trattenuto all’interno del perimetro di lucidità al cui interno il pianto non esonda.
Nonostante scriva di averlo “scordato”, il suo motto (rectius vivere) lo accompagna sempre nelle delicate operazioni che trasformano le parole del quotidiano in espressività lirica.
NOTE
[1] M. HEIDEGGER, L’abbandono, trad. it. e cura di A. Fabris, introduzione di C. Angelino, Genova, Il Melangolo, 1983, pp. 38-39.
[2] C. CARABBA, Canti dell’abbandono, Milano, Mondadori, 2011, p. 16.
[3] C. CARABBA, Canti dell’abbandono cit. , p. 9 : “Ma in cima sono strade / sconosciute / svolte sbagliate curve e giro a vuoto. / Le macchine affiancate / sono cattivi presagi troppa luce”.
[4] C. CARABBA, Canti dell’abbandono cit. , p. 10: “Quello che di me resta è un motorino / e la sua sella è rotta / e il suo nome è di donna. / Lungo il fianco sinistro il cavalletto / scivola verso terra e fa scintille. / Si accostano ai semafori, ricevo / spesso consigli e un monito / “Stai attento, potresti morire” “.
[5] C. CARABBA, Canti dell’abbandono cit. , p. 11.
[6] C. CARABBA, Canti dell’abbandono cit. , p. 9 : “Quando ho riaperto gli occhi erano crepe / sui muri e nuove strade erano / la pagine ingiallite. / Ho lasciato che il dolore mi sperdesse / come il vento la neve sulle ali / di un aereo. Mi attende un altro inverno / di nuove stanze e vecchi corridoi”.
[7] C. CARABBA, Canti dell’abbandono cit. , p. 30.
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*Il titolo di questa rassegna deriva direttamente da quello di un grande romanzo (Quel che resta del giorno) di uno scrittore giapponese che vive in Inghilterra, Kazuo Ishiguro. Come si legge in questo poderoso testo narrativo, quel che conta è potere e volere tornare ad apprezzare quel che resta di qualcosa che è ormai passato. Se il Novecento italiano, nonostante prove pregevoli e spesso straordinarie, è stato sostanzialmente il secolo della poesia, oggi di quella grande stagione inaugurata dall’ermetismo (e proseguita con il neorealismo e l’impegno sociale e poi con la riscoperta del quotidiano e ancora con la “parola innamorata” via e via nel corso degli anni, tra avanguardie le più varie e altrettanto variegate restaurazioni) non resta più molto. Ma ci sono indubbiamente ancora tanti poeti da leggere e di cui rendere conto (senza trascurare un buon numero di scrittori di poesia “dimenticati” che meritano di essere riportati alla memoria di chi potrebbe ancora trovare diletto e interesse nel leggerli). Rendere conto di qualcuno di essi potrà servire a capire che cosa resta della poesia oggi e che valore si può attribuire al suo tentativo di resistere e perseverare nel tempo (invece che scomparire)… (G.P.)