quel falso che è misura del vero

Creato il 26 febbraio 2016 da Vivianascarinci
"Egli era bello, è la cosa, al nostro orecchio, come siamo avvezzi a pensare la bellezza, può non voler dir nulla. Ma una qualità rara e indefinibile della sua mente, l'ardore, l'ampliava rendendo quel giovane volto simile a un sole talvolta, a una notte lunare talaltra; mentre quasi eternamente emanava da lui la luce e la dolcezza stordente di una marina ionica nel mese di maggio. Era anche come un bosco in aprile, quando si sciolgono le nevi e i rami delle betulle dondolano simili a sottili braccia d'oro, braccia di bambine. A bella posta abbiamo usato queste espressioni retoriche; senza la retorica, nulla di serio e di vero può essere detto, mancando quel falso ch'è misura o supporto del vero. Almeno questa è la nostra convinzione." Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato."Che ci si debba abituare al fatto che la realtà sia diventata sempre più clandestina?""Ma che cosa intendiamo qui per "invisibilità"? Né più né meno che il "segreto" di cui ogni corpo, ciascun corpo è, più o meno consapevolmente, portatore".
Vincenzo Cuomo
Walter Siti, Troppi paradisi

Su Il guardiano dei porci di Hans Christian Andersen

Una delle mie storie preferite è Il guardiano dei porci di Hans Christian Andersen. Ma è diventata preferita abbastanza di recente come frutto di una circostanza assonante al periodo in cui mi è capitato di leggerla. Non l'ho letta quando ero bambina. Né mi è stata raccontata. Né l'affezione per questa storia mi riporta all'infanzia passando per una madre che legge, ma piuttosto a una circostanza in cui sono io la madre che leggendo incorre in qualche recondita ricaduta, nell'attraversare quella storia, non come una fiaba ma come una metafora incredibilmente sorprendente, riguardo l'invisibile.

Le fiabe di Andersen - se non quelle edulcorate da qualche edizione facilitata, senza il nome dell'autore in copertina, e con i brutti volti dei personaggi tracciati pressappoco - non hanno fatto parte del mio bagaglio, fin quando non ho comprato per i miei figli un libro in edizione rivolta agli adulti, con una vera traduzione scoprendo di Hans Christian Andersen, assai tardivamente e con stupore, quanto prima che narratore di fiabe per bambini, lo fosse fin dall'intenzione, ad uso di quegli adulti che stanno in una zona indefinita delle età, in cui lo stesso Andersen si trovò costretto, anche nell'aspetto fisico, per tutta la vita. E quanto anche la sua strana biografia lo denunci estraneo, ai ruoli e alle funzioni canoniche che si giocano negli elementi portanti tanto di una biografia, quanto delle storie che narrava. Ma soprattutto, la cosa più sorprendente di certe storie di Andersen sta in quanto poco e raro interesse avesse l'autore per i lieto fine. Come se la letizia fosse un dato inconcludente e la lontana possibilità di un lieto fine, concorresse ad essere una tra le prime cause di rovina.

Tanto per cominciare, ne Il guardiano dei porci, c'è un principe che invece di regnare su un regno smisurato, ne possiede uno piccolissimo. Ma oltre a non vivere alcun complesso di inferiorità per una qualsiasi causa di misure esigue, egli è davvero principe nel cuore avendo pure l'ardire di esigere una sposa, e non la prima che capiti, ma la figlia dell'imperatore, che già adocchiata da tempo, è l'unica che gli garbi. Come se questo non fosse bastato per renderlo il mio eroe, il principe per ottenere la piccola imperatrice decide di giocarsi il tutto per tutto, offrendole due doni che rappresentino la totalità del suo tesoro. Ora, un tesoro fruttificato seppur nei secoli, da un regno piccolissimo non può certo consistere nell'agrimensura illimitata di un possedimento principesco ma in qualcosa di decisamente meno scontato e prevedibile. Un tesoro vero, accessibile al solo occhio che sappia guardarvi nei giusti termini. Ecco la prova che aspetta il coraggioso principe e l'ignara fanciulla: lui che crede di convincerla a sposarlo non altrimenti che regalandole l'inestimabile. Lei, forse accettando, ma anche no.

La conoscenza dell'ammontare di questo tesoro ci porta a un luogo che a differenza di un antro oscuro scelto per celare il bottino, è esposto allo sguardo di tutti. Si sa che l'ammontare dell'invisibile ha spesso la caratteristica di essere direttamente proporzionale alla sua esposizione. Il tesoro del principe consiste in una sepoltura, non di monete d'oro ma piuttosto di un padre. Su questa tomba che custodisce ben visibile la memoria di un grande re, accadono con straordinaria costanza due fenomeni sorprendenti: un rosaio ha stabilito di fiorire l'unica sua rosa ogni cinque anni, una rosa capace di una profumazione così rara e ineffabile da far dimenticare qualsiasi sgradevolezza. E un usignolo si presenta lì tutte le mattine a cantare ogni sorta di melodia conosciuta e sconosciuta senza pretendere cachet. Comprendendo appieno il potenziale di una simile gratuità, il principe deve aver pensato che nulla potesse essere più convincente di quella bellezza, ai nobilissimi occhi di una futura imperatrice, e decide di recidere la rosa e catturare l'usignolo per donare alla fanciulla la virtù di cui è erede.

E' qui che la favola sempre mi turba, fin quasi a dover raccogliere uno slancio ulteriore per poter proseguire oltre la tomba alla ricerca del valore di un'eredità sottoforma di dono che non si attende ma si porge.

Il primo dono che arriva alla reggia dell'imperatore padre è la rosa, che viene accolta con iniziale entusiasmo. Ma sebbene l'imperatore e la corte al principio l'avessero apprezzata, alla piccola imperatrice non piace soprattutto per un motivo: la rosa è troppo vera. Nella verità di una rosa c'è quanto di non trascurabile esiste nell'invisibile. Un profumo, la passività del non artefatto, il velluto che si offre e sfalda in petali l'unico movimento di profferta. La verità della rosa mette fuori discussione tutto quanto abbia qualcosa a che fare con l'artificio sempiterno di una bellezza in cui il tempo scorre senza intelligenza, senza la memoria che non umilierebbe mai con un atto di riscossione dovuta, il significato recondito di un dono.

Nel convenire, subito dopo l'eccitazione iniziale, lo scarso entusiasmo di tutti per la rosa, Andersen inscena un motivo fondamentale della sua poetica: se da una parte il valore di ciò che è invisibile viene svalutato fino a renderlo una qualità trascurabile, questo innesca un'ultimativa credenza mortifera sulla bellezza, quella più decadente e rattristante, perché è un colpo autoinferto: la bellezza limitata all'esibizione di se stessa uccide il proprio segreto. Distrugge il luogo misterioso e sconveniente della sua tomba, senza più la possibilità di uno spazio che rechi ad essa il diritto di esistere o di inesistere alla luce del sole.

All'inizio ai cortigiani piace la rosa, l'imperatore di primo acchito anche la loda, per poi subito avallare il giudizio della figlia lasciandole l'ultima parola

"Uh! come è fatta bene!" esclamarono insieme le dame di corte.
"È più che ben fatta!" aggiunse l'imperatore "è bella!"
Ma la principessa la toccò e si mise quasi a piangere.
"Peccato papà" disse la fanciulla "non è fìnta, è vera!"
"Peccato" ripeterono le cortigiane "è vera!"

Andersen la sapeva lunga sull'invisibile. Ne I vestiti nuovi dell'imperatore, l'invisibile e le strategie ipocrite che lo nominano, sono organizzate in una narrazione sfacciatamente paradigmatica: un imperatore offuscato dalla vanità crede all'esistenza di una stoffa così ineffabile che ai più risulta invisibile. Ma in realtà quell'invisibilità è una truffa, e il primo ad essere truffato è l'imperatore stesso. Qui, l'ineffabile e il nulla hanno la stessa sublime trascurabilità. Non c'è differenza, perché l'importante, tanto per la piccola imperatrice, quanto per l'imperatore vanitoso, non è se una "cosa" sia vera ma che quella "cosa" sia facilmente condivisibile da un consenso di cui essere arbitri.

Quando alla corte della piccola imperatrice arriva l'usignolo le cose non vanno meglio:

"Guardiamo cosa c'è nell'altro astuccio, prima di inquietarci!" disse l'imperatore, e così comparve l'usignolo, e cantò così bene che non fu possibile dire nulla di male di lui.
"Superbe, charmant!" commentarono le cortigiane, che parlavano francese tra loro, ma una peggio dell'altra.
"Come mi ricorda il carillon della defunta imperatrice!" disse un vecchio cavaliere. "Si, è proprio la stessa tonalità, la stessa espressione."
"Sì" esclamò l'imperatore, e si mise a piangere come un bambino.
"Non posso credere che sia vero!" disse la principessa.
"Sì, è un uccello vero!" risposero coloro che lo avevano portato.
"Ah, allora lasciatelo volare" disse la principessa, e non permise assolutamente che il principe entrasse.

A questo punto di buono c'è solo una cosa: la confusione mentale della piccola imperatrice sulla questione del vero e del non vero, l'avrebbe resa sicuramente credula. Per cui il principe, che ha cuore nobile, senza perciò essere fesso, decide di usare a suo vantaggio la cosa travestendosi da guardiano di porci per penetrare sotto mentite spoglie in quel regno di fanfaroni. E' facilissimo farsi assegnare un alloggio vicino alla porcilaia, e altrettanto facile avere tutto il tempo di escogitare uno stratagemma. L'idea è di inventare un oggetto meraviglioso che possa colpire la piccola imperatrice in modo irresistibile. Un oggetto che possa insegnarle la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è. E cosa muti un'apparenza trascurabile in una magia meravigliosamente visibile, e quanti inganni siano celati dietro tutti i fatti di questo ordine. Ma soprattutto, quanto la fiducia nei propri segreti serva per non risultarne gabbati.

Ma sarà l'importanza di un compito similmente imparentato col destino a fargli tremare i polsi, o che le invenzioni le si inizia e non si sa mai dove vanno a parare. O sarà che più prosaicamente al principe, che s'è messo a lavoro fin dall'alba, intanto che lavora gli è venuta fame, fatto sta che alla fine della giornata si trova in mano, non un gioiello, un regale monile ancora da donare, ma niente di meno che una pentola magica che funziona così: non appena la zuppa alza il bollo, dei campanellini cominciavano a suonare, senza indugio una canzone ... ma non è tutto, la pentola magica ha un'altra proprietà incredibile: se si mette il naso per annusare i vapori che emana il bollore, immediatamente si può capire dall'odore quali cibi stanno cuocendo sui fornelli di tutto il reame! L'odore dei segreti altrui e quanto sia attraente l'intimità svelata da un prodigio. Solo un principe di un piccolissimo regno cresciuto tutto intorno a una tomba, avrebbe potuto architettare un simile tranello senza caderci dentro lui per primo.

Per pura coincidenza, proprio al momento del collaudo della pentola, passa vicino alla porcilaia la piccola imperatrice. Per pura coincidenza, la canzone che la pentola suona ogni volta che si alza il bollore è l'unica che la piccola imperatrice conosce e sa suonare con un dito. Di conseguenza la fanciulla, che ormai sappiamo bene non essere una volpe, deduce che il guardiano dei porci sia depositario di tutto lo scibile umano, ma che di sicuro è anche un pericoloso stregone, e manda una delle sue dame, la più bella, a chiedergli il prezzo di quell'invenzione perché vuole a tutti costi comprarla. "Non la vendo" dice il principe "Ma alla tua Signora potrei cederla in cambio di dieci baci". La dama scoppia in una fragorosa risata. "Ce la vedi la figlia dell'imperatore che dà dieci baci a un guardiano di porci? I baci te li do io che sono bella, e che il prezzo ti basti!". "Niente affatto. O la piccola imperatrice o niente".

E che ve lo dico a fare? La piccola imperatrice cede e l'immondo commercio di baci si consuma, e lei passa tutta la notte a spassarsela alle spalle dei suoi sudditi. In breve tempo, non c'è fornello in tutto il regno di cui non si sappia, e giù risate e balli sulle note della canzone che la pentola e la fanciulla non smettono di intonare fino a notte fonda.

"Solo la danza" scrive Vincenzo Cuomo: "una danza capace di dis-orientare il corpo e di dis-organizzarlo, è capace di mettere definitivamente fuori gioco il sistema del giudizio, perché danza intorno al vuoto, al pericolo, al segreto". Ritroverà la ragazza, il segreto di se stessa, danzando? O stordita dagli odori di tutte le case, perderà definitivamente il proprio profumo?

Il tempo stringe, la favola deve volgere alla conclusione, i personaggi aspettano, non di essere lieti, ma di essere liberati. I personaggi di Andersen non aspettano che l'evidenza, la stessa che al principio sembra invisibile, e ci arrivano attraversando il panorama avvincente della necessità, come se il compimento non abbia bisogno di alcuna intenzione da parte loro se non di possedere il segreto che sono i loro corpi a racchiudere. La piccola imperatrice danza e suona con un dito l'unica canzone che conosce. Il principe non teme di sporcarsi travestendo il suo corpo bellissimo da guardiano dei porci. Il giorno dopo non avrà timore di architettare un tric trac, invece che un'arpa, per stregare la piccola imperatrice cui piace ballare. L'oggetto risolutivo non sarà lo strumento musicale più ammaliante di tutti ma un tric trac che per incanto smetterà di produrre suoni brevi e secchi come dinieghi e inventerà meravigliose polche, valzer, saltarelli soltanto tramite una leggerissima rotazione del polso. Il principe è un mago, impugna un tric trac o suona un'arpa? Non lo sappiamo più, la musica fa il resto e arriva dove non arriva il visibile. "Dove il mondo fallisce, parla la musica" scrive Andersen in un aforisma.

In breve la principessa pretende anche il tic trac ma ci vogliono cento baci stavolta per ottenerlo. L'operazione di pagamento, in verità troppo laboriosa per passare inosservata, porta con sé la conseguenza che l'imperatore padre li sorprende nel mentre della fornicazione e per la vergogna li scaccia dal suo onoratissimo regno. I due si ritrovano sospinti da una potente pedata sotto un albero a fianco ad un ridente ruscello. La piccola imperatrice piange. Ma smette subito quando il guardiano dei porci si ripulisce dalla lordura lavandosi nelle acque del ruscello per rivelarsi il bellissimo principe che è. E a questo punto la storia potrebbe finire bene se non l'avesse scritta Andersen.

Cees Nooteboom scrive "nel mondo ci sono luoghi in cui un arrivo o una partenza vengono misteriosamente moltiplicati dai sentimenti di quanti nello stesso luogo sono arrivati o da là ripartiti" le sepolture sono tra questi luoghi di scambio. Chi arriva viene agito da molte partenze, chi parte detiene la possibilità del luogo di essere qualcosa di ulteriore. Il principe che ha fatto di questa consapevolezza un tesoro, ha percorso un strada lunghissima, un disvelamento che l'ha condotto lontano, molto lontano dallo stesso luogo da cui è partito e poi tornato. E dopo questo ritorno infine può vedere quello che al principio non vedeva: un'imperatrice minuscola che non ama le rose, che non capisce niente di usignoli e che fa l'amore con un guardiano di porci per ricevere in cambio un sonaglino. Tra l'olandese Nooteboom e il danese Andersen corre un filo rosso assai significativo. Nooteboom dedica un intero libro alla libera riscrittura de La regina della neve, la strega che separava gli amanti gelando il cuore di uno solo di loro. In questo romanzo che si intitola Le montagne dei paesi bassi Nooteboom ancora scrive che tra strade e storie non c'è gran differenza: entrambe sono fatte per portare altrove.

"C'era una volta una grande candela di cera, molto consapevole del suo valore" scrive Andersen come incipit di una breve fiaba in cui quella bianchissima candela di cera, non fa che brillare esattamente come quella di sego, pur illuminando realtà assai diverse. Non è che il corpo fatto di grasso o cera determini la qualità del fuoco, voleva dire Andersen. Il fuoco come la realtà ha il suo segreto da custodire in piena luce. Ed è un segreto che solo i corpi, siano essi di sego o di cera, modulano ben al di là dei loro quotidiani nascondimenti. Andersen fa in modo che il principe finisca per disprezzare la fanciulla e se ne torni alle sue tombe. Fa in modo che entrambi restino soli con i loro segreti mantenuti, perché forse, quanto di visibile c'è nella realtà, non è che questo mistero.

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