“La voglia di viaggiare sta scritta in un gene”. Non sono diventata nè una scienziata nè una ricercatrice. E’ semplicemente il titolo di un articolo dell’Huffington Post segnalatomi ieri da un amico. Cerco di sintetizzarvela in poche parole.
Sembrerebbe che il bisogno di viaggiare o di partire continuamente sia legato ad una sorta di “gene del viaggio”. Mi era sembrata una notizia dai tratti quasi romantici, su cui poter fare voli pindarici con la fantasia: raccontare le storie di donne e uomini che, d’impulso, abbandonano la loro routine trascinati da un bisogno irrefrenabile di migrare. Una sorta di impeto violento che iniziava a farli camminare felici senza meta, senza bagagli, soldi, fronzoli.
Ma torno alla realtà nel momento in cui vado avanti con l’articolo…
Questo povero “genetto”, che per centinaia di anni se ne stava nascosto nel DNA di grandi esploratori, viaggiatori, navigatori, letterati, silenzioso e felice del suo ruolo magico, d’un tratto viene scoperto. Il linguaggio cambia e si inizia a parlare di ‘recettore della dopamina D4′, anzi per essere precisi, di DRD4 7r.
Dopo secoli, insomma, questo gene finisce con l’avere il nome di un virus, di una cometa, di un cellulare …una sorta di nuovo sfigatissimo battesimo.
Alla fine sorrido.
La scienza è una cosa meravigliosa ma a me non interessa sapere se il desiderio di partire sia scientifico. Non mi interessa sapere se il mio livello di DRD4 7r sia alto, altissimo o basso, bassissimo.
Se questo gene sia aggrappato o meno al mio DNA non lo saprò mai.
Quello che so è che non parto per il bisogno di lasciarmi alle spalle casa o la routine, o “per sentirmi viva”.
Viaggio perché mi piace vivere su pelle una tradizione, un’esperienza. Viaggio perché mi piace esprimere un’opinione dopo aver visto con i miei occhi un luogo, una cultura.
Viaggio perché, probabilmente, forse alla fine è quello che so fare meglio.