Quel genio mancato di Odifreddi

Creato il 06 settembre 2013 da Uccronline

Nel suo ultimo articolo di agosto, Piergiorgio Odifreddi ha sfruttato l’apertura del “Meeting” di Rimini, organizzato dal movimento di Comunione e Liberazione, per citare un simpatico, e sopratutto molto utile al mondo, studio scientifico sull’intelligenza degli atei e dei credenti. Odifreddi, eccitato per il risultato della ricerca, ha titolato il suo post “I geni di Rimini”.

La ricerca in questione è stata pubblicata sulla prestigiosa “Personality and Social Psychology Review” e ha analizzato 63 studi scientifici, concludendo che per 53 di essi gli atei tendono ad essere più intelligenti rispetto ai loro omologhi religiosi, mentre 10 studi arrivano a conclusioni opposte. Per intelligenza si intende “la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare astrattamente, comprendere idee complesse e imparare velocemente”.

L’argomento è il cavallo di battaglia degli odifreddini vari: finalmente uno studio scientifico ha sostenuto la superiorità evolutiva degli atei, belli, muscolosi e ariani contro gli stupidi credenti, sporchi, dogmatici e razzialmente inferiori! Odifreddi era al settimo cielo, ma non solo lui. «La reazione è stata prevedibile», ha commentato Jason Richwine, «se le persone più intelligenti tendono ad essere atee, allora l’ateismo è la religione corretta, giusto?».

Per chi è interessato capire cosa dice lo studio, sottolineiamo innanzitutto, il commento di Miron Zuckerman, autore della ricerca: «è veramente un messaggio sbagliato se si rileva dal nostro studio che se credo in Dio devo essere stupido. Piuttosto, noi sottolineiamo che le persone più intelligenti possono avere meno bisogno della religione perché una maggior intelligenza offre maggior auto-controllo, senso della comunità e maggior autostima, benefici offerti anche dalla religione. Noi diciamo che è possibile che avere un alto livello di intelligenza possa fornire funzioni simili a quello che la religione fornisce. In tutte queste cose, ci sono comunque vantaggi ad essere religiosi». Bene, rimane però strana la riduzione del contributo della religione alle mere conseguenze psico-fisiche.

Il secondo messaggio comunicato dalla ricerca riguarda specificamente il QI (quoziente intellettivo): le persone più intelligenti sono meno propense a credere in Dio perché sono più propense a sfidare le norme stabilite. Esse hanno anche più probabilità di avere stili di pensiero analitico, che altri studi hanno dimostrato minare la fede religiosa. Come ha spiegato Jason Richwine citando una sua analisi precedente, le cose vanno capite: tra le persone, quelle con la metà inferiore della distribuzione del QI, non mettono mai in discussione la religione della loro educazione, mentre la metà superiore è scettica. Tuttavia, tra coloro che sono nella metà superiore, l’80% finisce per ri-affermare la sua fede e rimane religiosa, mentre il resto la rifiuta (dimostrato dal fatto che anche nelle società più avanzate e istruite i credenti sono comunque la maggioranza). La correlazione positiva tra il QI e l’ateismo esiste non perché le persone intelligenti hanno necessariamente rifiutato la religione, ma perché la religione è la posizione predefinita per la maggior parte delle persone della nostra società. Questo stesso principio funziona anche in luoghi come il Giappone, per esempio, dove non esiste la tradizione di una religione monoteista ma i pochi cristiani giapponesi tendono ad essere molto più istruiti dei non cristiani. Anche Cuba, Vietnam e Repubblica Ceca hanno tassi altissimi di ateismo ma allo stesso tempo si registra un basso QI rispetto alla media degli americani, i quali per il 92% si dichiarano teisti.

La vera questione, allora, è quella già nota ai sociologi: chi appartiene ad una minoranza è mediamente più intelligente (è questione di percentuali!), come conferma anche uno degli autori dello studio stesso, Jordan Silberman: «I risultati riguardano l’intelligenza media delle persone religiose e non religiose, ma non sono necessariamente applicabili a ogni singola persona». Rispetto, invece, allo stile di pensiero analitico preferito dalla maggioranza dei non credenti, rispetto al pensiero intuitivo dei credenti, occorre capire che «sia il ragionamento analitico che intuitivo sono strumenti utili. Ognuno può pensare in modo intuitivo e analitico e nessuno dice che il sistema intuitivo è sbagliato e quello analitico è giusto», come è stato spiegato su “Live Science”. Lo statistico William M. Briggs ha infine citato i limiti di questo studio, primo fra tutti l’aver parlato di “intelligenza” in modo ristretto (escludendo l’intelligenza creativa ed emotiva), aver parlato di “religiosità” in modo troppo aperto, non aver considerato che il meccanismo per misurare il QI era diverso in luoghi diversi, non aver considerato la differenza di istruzione dei diversi paesi (come paragonare i credenti congolesi con gli atei statunitensi?) e anche le religioni sono estremamente diverse (è la stessa cosa credere nell’animismo rispetto al cristianesimo?).

Lo scrittore Sean Thomas ha ironizzato su “The Telegraph” sottolineando che in realtà «i credenti stanno vivendo in modo più intelligente: un vasto corpo di ricerca, accumulato negli ultimi decenni, mostra che la fede religiosa è fisicamente e psicologicamente benefica ad un livello notevole». Ha citato infatti i numerosi studi che rilevano nei credenti maggior salute mentale, una vita più lunga e di benessere psico-fisico, meno malattie, degenze ospedaliere e meno depressione, più alti livelli di felicità, più bassi tassi di suicidio e di consumo di stupefacenti, maggiori tassi educazione civica e generosità ecc. Ha quindi concluso ironicamente, facendo il verso a Odifreddi e agli odifreddini che pensano di strumentalizzare il recente studio sull’intelligenza degli atei: «Allora, chi è il partito più intelligente, ora? Sono gli atei che vivono brevi, egoiste, e rachitici vite, spesso senza figli, che si avvicinano prima alla morte senza speranza vivendo nella disperazione? O forse i credenti, che vivono più a lungo, più felici, una vita più sana e generosa, che hanno più figli e che vivono la vita con dignità in attesa di essere accolti da un Dio sorridente e benevolo? Ovviamente, sono i credenti ad essere più intelligenti. Chi pensa la diversamente è malato di mente».

Il commento più interessante è comunque risultato essere quello del non credente marxista Frank Furedi, sociologo presso l’University of Kent e membro della British Humanist Association, pubblicato sull’”Independent”. «Come sociologo la domanda che mi interessa è perché le persone si impegnino in un progetto che cerca di determinare la relazione tra intelligenza e fede religiosa. Non è che questi ricercatori sono disonesti, ma che come tutti gli altri soffrono di una tendenza a scoprire quello che già sospettano. L’uso polemico della scienza – chiamato scientismo- non ha niente a che fare con la vera scienza, che è la ricerca disinteressata della verità. Lo scientismo utilizza l’autorità della scienza per invalidare lo status morale di gruppi e individui e le loro pratiche a causa della loro inferiorità naturale. E’ lo stesso che si faceva con la craniologia nel 19° secolo. La svalutazione dell’intelligenza dei vostri avversari è quello che fanno i bambini quando si chiamano l’un l’altro stupido. Da ateo mi prendo una eccezione alla pretesa che le mie opinioni sono il prodotto della mia intelligenza, l’esperienza di vita dimostra che le fila degli atei hanno la loro giusta quota di idioti».

Se qualcuno dovesse malauguratamente pensare il contrario, ci teniamo a precisare che l’ultima frase non sembra riferirsi a Piergiorgio Odifreddi e agli odifreddini.

La redazione


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