Partivano, i pastori delle montagne del Piemonte. Partivano in albe gelide, con le ruote dei carri che scavavano solchi sulla ghiaia e i cani che correvano in qua e là per radunare le greggi. Partivano, per "rubare l'erba" dove l'erba c'era. Partivano, e non smettevano di partire, la loro vita era tutta una partenza, una partenza e un ritorno, d'estate verso gli alpeggi, di inverno verso i loro paesi.
Un altro mondo, non troppi anni fa, eppure un'epoca fa. Il mondo prima della motorizzazione di massa, della televisione, di Internet. Il mondo che Marco Aime, antropologo, si ricorda bene, perché era il mondo della sua infanzia, delle sue radici famigliari.
Ci torna da adulto, da studioso, in quei posti. Ci torna, mescolando l'emozione dei suoi ricordi alle ultime testimonianze di ciò che è irrimediabilmente scomparso. Ci torna e accoglie volentieri la sua perplessità:
Ora mi sembra persino strano essere qui, a fare l'antropologo. Di solito un antropologo si occupa di cose lontane, va a ficcare il naso nelle case di gente straniera, diversa da lui....
Credo che sia proprio questa perplessità, con tutte le domande che ne discendono, a fare di Rubare l'erba (Ponte alle Grazie), un libro raro, con la sua bellezza impastata di malinconia.