È il tempo dello sviluppo, della tempesta e dell’assalto, dei piani da realizzare prima delle elezioni. Il viceministro Mario Ciaccia ha oggi confermato le anticipazioni di Repubblica sul piano nazionale degli aeroporti, inserito nel capitolo “crescita” di Palazzo Chigi. Il dossier, che sarebbe sulla scrivania di Passera da molto tempo, prevede la riduzione degli scali italiani esistenti da sessanta a quaranta, con l’obiettivo però di scendere addirittura a trentatré. I salvati sono gli aeroporti intercontinentali, gli “strategici” e i “primari”, mentre gli antieconomici sommersi saranno chiusi o affidati, in alternativa, agli enti locali. In base a quanto ci è dato comprendere, il piano prevede la classificazione degli scali in base al contributo che possono dare all’efficienza del traffico aereo, la concentrazione dei voli commerciali su un numero limitato di aeroporti e la chiusura dei rami secchi.
Il nord comprende, come di consueto, una serie di scali “strategici”: Malpensa dovrebbe rafforzarsi nel suo ruolo di “gate intercontinentale e multivettore” mentre Linate sarà ufficialmente city airport, nonché “snodo privilegiato dalla clientela business diretta in Europa” (cito dal sublime dazebao filogovernativo di Repubblica). Altrettanto strategici Torino, Genova, Venezia e Bologna. Al centro-sud i poli strategici tendono a diminuire, ma con qualche segno di cambiamento: sul futuro aeroporto di Viterbo saranno dirottati molti voli di Ciampino, city airport anch’esso, mentre un nuovo scalo a Grazzanise assorbirà progressivamente il traffico aereo di Napoli Capodichino.
Al sud le cose si mettono peggio, ma Repubblica parla con gaudio magno di “novità”. In Puglia solo l’aeroporto di Bari sarà considerato strategico, mentre quello di Brindisi verrà destinato prevalentemente ai voli low cost. Stessa sorte in Calabria per lo strategico aeroporto di Lamezia Terme, colossale cattedrale nel deserto voluta da Giacomo Mancini, a danno degli scali di Crotone e di Reggio Calabria. Per Sicilia e Sardegna il piano presenta “diverse opportunità e disegna un futuro fatto di stretti rapporti commerciali con il nord-Africa”. Questo vuol dire che per un siciliano, di questo passo, sarà più semplice andare in nord-Africa che nel resto d’Italia. Recarsi in Puglia, poi, sarà impossibile: meglio prendere un volo per Tirana e farsi sbarcare in Salento dagli scafisti.
Non è dato sapere, in questo momento, quali siano i modelli matematici, sociali ed econometrici utilizzati dal ministro Passera per le stime sul traffico aereo, sulle compagnie su cui investire e sulle strutture da valorizzare. Per ora possiamo azzardare solo un tragico sospetto: che, ancora una volta, il criterio dell’efficienza e della razionalizzazione aggravi il divario socio-economico del Paese, tagliandolo letteralmente in due. Non è necessario essere esperti di sviluppo economico per notare l’asimmetria delle scelte strategiche, che coccola la Lombardia e massacra la Calabria a pochi mesi dalla scelta di Trenitalia di abolire i treni a lunga percorrenza, mentre la Salerno-Reggio Calabria è ancora l’inferno sulla terra (ma il ministro Passera, ottimista, pensa di chiudere i cantieri dopo la profezia Maya).
Non sappiamo ancora tante cose della sorte dei nostri aeroporti: il piano tace sul problema della definizione delle rotte, delle tariffe, della qualità minima dei servizi e soprattutto sul ruolo dell’ENAC, che ha dimostrato nella (irrisolta) vicenda Wind Jet di poter aggravare i dissesti finanziari delle compagnie aeree con la totale indifferenza verso i destini dei viaggiatori.
Il sud del Paese, già privo di treni, rischia ora di vedersi dimezzati i collegamenti aerei, con nuovo rincaro delle tariffe ordinarie. Per l’esecutivo in carica, come per i suoi predecessori, l’Italia meridionale e insulare non è strategica né business, ma può incancrenirsi nei suoi problemi endemici e nella sua progressiva emarginazione.
Una riorganizzazione degli aeroporti è opportuna, ma non certo nel senso auspicato dal ministro banchiere. Rispediamo al mittente gli aeroporti di serie A e di serie B, che subiscono le stesse potenziali discriminazioni dei lavoratori, dei cittadini, dei tribunali, degli ospedali e persino dei titoli di studio nell’era dei professori. Lo sviluppo è come la cultura: non si può svendere, razionalizzare, barattare in nome del dio denaro. Lo sviluppo è anche bellezza, coraggio, potenziamento delle infrastrutture, valorizzazione del territorio. Le nostre speranze, evidentemente, non sono strategiche.