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Quel pezzente neocapitalismo italiano accattone ed il PIL cinese

Creato il 20 ottobre 2013 da Blogaccio @blogaccioBlog

Pirelli-Agnelli-OlivettiIl capitalismo italiano sarebbe minacciato dal riflusso statalista. Si è messo in allarme “l’empireo mercatista” e dalle colonne di quel Foglio che vive fuori mercato protetto da generosi contributi statali, lancia appelli al laissez faire dopo che sia pur in ritardo, lo Stato è intervenuto a salvaguardare gli interessi economici nazionali con modalità diversificate in settori di vitale importanza dove operano Ansaldo Energia, Telecom e Alitalia. Non sarebbe un belvedere, gli aiuti di Stato violerebbero i trattati europei sulla libera concorrenza ed impedirebbero ai colossi statalisti cinesi, indiani, asiatici di colonizzare i nostri mezzi di produzione nel campo dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni. Un pò come a dire che per ritrovare competitività dobbiamo trasformarci da padroni a servi nella nostra stessa casa. Dall’utopia egualitaria all’ideologia dell’assurdo questo processo a nostro avviso fa più difetto alla destra italiana che alla sinistra internazionalista per convinzione. L’intervento dello Stato in economia infatti, NON è una prerogativa della sinistra come alcuni soloni americanomorfi vogliono farci credere, basti qui ricordare la Prussia di Bismarck e l’Italia a noi più vicina di cui NON si può né parlare, né scrivere e nemmeno pensare pena la galera, condizione oramai esclusiva dei soli poveracci e dalla quale sono invece tenuti a debita distanza frodatori, corrotti, concussi e corruttori. A voler fare un breve ripasso però, si scoprirà che nel 1929 quando a New York la gente si lasciava cadere giù dai grattacieli per la disperazione, in Italia fu la destra nazionale a farsi promotrice di un massiccio intervento ricostrutture dello Stato in economia di pari passo all’attuazione di un poderoso piano di lavori pubblici e ad una saggia, incisiva politica di socializzazione rurale che modernizzò il paese sanando i guasti del liberismo senza regole ed emancipando la popolazione dalla disoccupazione, dalla povertà estrema e dall’analfabetismo nel quale l’aveva tenuta Giolitti. Quindi, la storia è lì a testimoniare che lo “statalismo“ NON è estraneo alla destra e che ad esso si fa ricorso nei cicli economici depressivi per avviare la ripresa e ripristinare un sano rapporto di convivenza tra tutti gli attori sociali. Resta infine un’amara costatazione: di capilisti in Italia NON c’è più traccia. In Italia non è più nata gente che inventa, rischia e crea dal nulla imprese di primato mondiale in proprio. Quelli che abbiamo messo alla prova affidandoci al “mercato” si sono rivelati degli accattoni, speculatori pezzenti senza scrupoli e senza soldi da investire, ma col solo merito di saper tessere fitte trame di relazioni tra politica e finanza gli è stato permesso di scalare a debito industrie ed imprese create dalla mano pubblica. Si sono arricchiti, hanno inquinato ed ucciso, hanno lasciato invecchiare gli impianti e licenziato. Sono infine scappati con la cassa proprio quando le aziende a loro affidate avevano bisogno di ingenti investimenti. Questo e non altro c’insegnano le privatizzazioni di Telecom, Ilva ed Alitalia. Non vendiamo il vendibile, ciò che non è necessario trattenere ed invece cediamo interi settori fondamentali per pochi bruscolini come prevede il nuovo piano di privatizzazioni di Letta: Snam e Terna cioè, le reti gas ed elettrica importanti quanto e forse più della rete telefonica, andranno sul mercato per la metà delle quote azionarie. Si cedono a squali nostrani e speculatori stranieri pacchetti di proprietà rilevantissime di aziende strategiche che fanno utili in settori difesi in tutti gli altri paesi europei compresa la Germania che in questi particolari ambiti è impermeabile e si “spera” di ricavare appena 2 miliardi da destinare all’abbattimento del deficit ed all’abbassamento delle tasse sul lavoro per qualche decina di euro. Incassi da saldi. Una roba da “idioti matricolati”. Anche perché si pretende di ritornare competitivi guardando alla Cina che dopo un decennio di crescita a due cifre si è attestata su di un PIL quantitativamente e qualitativamente notevolissimo al 7,5% annuo guarda caso, grazie agli investimenti infrastrutturali ed agli stimoli di Sato all’industria che in Europa ci si vuole negare.


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