Che cosa vuol dire «occupabilitá»? É un termine che ha trovato posto, qualche giorno fa, nelle prime pagine dei giornali. Lo ha usato il ministro Giovannini prendendo spunto da un’indagine Ocse-Isfol. Lo studio ha accertato «come gli italiani siano poco “occupabili” perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro». Insomma occupabilitá significa possedere le doti, le competenze necessarie per trovare un lavoro.
Quali sono queste doti? Certo molte sono relative, come si è fatto notare polemicamente al ministro, alla possibilità di far parte di amicizie, clientele, parentele che favoriscono l'ingresso al lavoro. Altre investono le responsabilità di governi, imprenditori (ma anche sindacati) e di sistemi scolastici che sul capitolo «formazione» non hanno investito iniziative, energie, soldi. C'è infine da ricordare un motivo preponderante: il blocco della crescita, la fuga di produzioni e lavoro nei sentieri della globalizzazione.
É interessante comunque leggere i dati forniti dall’Indagine Piaac (Programme for the international assessment of adult competencies) promossa dall’Ocse e realizzata dall’Isfol. Scopriamo così che il ministro Giovannini non ha fatto altro che prendere atto dei dati Ocse anche se ha dimenticato le proprie responsabilità e in generale quelle dei governanti. Fatto sta che l’Italia rappresenta il fanalino di coda nella partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con ripercussioni pesanti, ad esempio, per i cinquantenni espulsi dai processi di lavoro. La formazione, l’apprendimento continuo, sta al 24% a fronte di una media del 52%. Così nelle cosiddette «competenze alfabetiche» il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 250, contro una media Ocse di 273. Mentre nelle «competenze matematiche» la media italiana è pari a 247 rispetto al 269 di quella Ocse. I punteggi sono riconducibili a 6 diversi livelli di competenze e il livello 3 è considerato il minimo indispensabile per «vivere e lavorare nel XXI secolo». Il 40% di chi ha seguito un percorso formativo raggiunge o supera il livello 3 nelle competenze alfabetiche, contro il 20% di chi non lo ha fatto. Tra gli esempi fatti quello della capacità di gestire un computer. Ebbene il 25% del campione italiano dichiara di non aver mai utilizzato il pc mentre tra coloro che hanno esperienza con il computer il 2,5% non si dimostra abile a proseguire la prova su computer. Il 15%, preferisce in ogni modo fare la prova su carta. Solo il 58% ha dimostrato perizia col computer contro il 77% della media Ocse.
I Paesi che registrano un capitale umano dalle competenze elevate sono Giappone, Finlandia, Paesi Bassi, Australia, Svezia, Norvegia, Estonia e Belgio. Tra i «soggetti più fragili», colpiti dalla non «occupabilità», troviamo, nell’indagine, i Neet (Not education, employment or training), i pensionati, le persone che svolgono lavoro domestico non retribuito, i disoccupati di lunga durata. Così i Neet italiani, tra i 16 e i 29 anni, per quanto riguarda le competenze alfabetiche raggiungono un punteggio medio pari a 242, mentre la media nazionale è di 250. Fatto sta che questi giovani «registrano uno svantaggio sistematico nell’acquisizione e nel mantenimento delle competenze ed hanno – in particolare i più giovani – una elevata probabilità di occupare i livelli più bassi di competenze».
Tra i pensionati, poi, si scopre che Il 29,2% di coloro con età compresa fra i 45 e i 65 anni di età che hanno svolto lavori nelle categorie «skilled» (esperte, qualificate) è inserita al livello 3 o superiore della scala di competenze alfabetiche, mentre si collocano a tale livello solo l’8,4% di coloro che hanno svolto un lavoro nelle categorie semi-skilled e il 6,8% di coloro che hanno svolto un lavoro nelle categorie «elementari».
Insomma la ricerca deduce come «continuare a imparare, rimanere attivi, accrescere le proprie capacità sembrano dunque gli strumenti per avvicinarsi a quei Paesi europei affini all’Italia per caratteristiche socio culturali ed economiche». È un incitamento a investire nella «conoscenza», nel «sapere» come una delle fonti principali per ottenete un passaporto per l’impiego. Anche se, come dimostrano i casi di tanti giovani italiani, tutto ciò in Italia non basta e occorre fuggire all’estero dove già fuggono imprese e capitali.