16 giugno 2014 di Vincenzo D'Aurelio
L’utilizzo del termine “cultura” è di frequente sfruttato per costituire la base ideologica di una comunità che, per vari motivi, sente la necessità di inquadrare le caratteristiche tipiche della propria identità. Quando essa è considerata come un bene minacciato che deve essere preservato – impulso particolarmente accentuato nei momenti di crisi sociale – il passo per alimentare e legittimare sentimenti nazionalistici deviati è molto breve. Una strumentalizzazione del concetto, quindi, è un elemento di rischio che ogni società dovrebbe saper evitare per il bene di se stessa e per il suo progresso.
La cultura, di fatto, deve alimentarsi di diversità poiché l’integrazione con essa permette l’assimilazione di elementi capaci di arricchire la sfera delle esperienze e delle conoscenze. Dopotutto, non esiste una cultura indigena vera e propria bensì un patrimonio di apprendimenti i quali, come in una sorta di stratificazione progressiva, si sono sovrapposti e integrati. Più profondo è lo scavo nella cultura di un popolo e più antico è il sapere dal quale essa proviene, più vasta è la conoscenza dei propri retaggi e più labili saranno i suoi termini geografici.
La cultura, tuttavia, non è un concetto in senso stretto ma è come un intelletto in costante espansione desideroso di acquisire e apprendere per ampliare sempre più gli orizzonti delle sue stesse consapevolezze.
Tutelare la cultura di un popolo, pertanto, significa mantenere vivo tutto ciò che è stato assimilato nel corso dei secoli e, al contempo, essere ricettivi di esperienze capaci di istruire anche se le stesse provengono da quel fuori che regionalismi deviati paragonano a contaminazioni pericolose.
Tuttavia, la storia insegna, alla cultura è stato sempre posto un limite per controllarne la libertà di accesso e di circolazione. Il motivo di ciò trova spiegazione proprio in quella comprensione del mondo che proviene dalla voglia di conoscere ovvero dalla volontà di aver cultura. Una società che conosce, difatti, è capace di discernere il suo meglio a discapito dei totalitarismi e di ogni centralità di potere che trovano alimento proprio nell’ignoranza dei cittadini. Ecco perché una società per essere controllata non ha primariamente bisogno di un esercito con fucili e cannoni bensì di un filtro che centellini il sapere.
Le più grandi rivoluzioni della storia nacquero proprio con l’acquisizione di una nuova coscienza sociale che sempre maturò nell’ambito di una cultura spinta dalla volontà di far progredire l’uomo verso l’emancipazione intellettuale e materiale. L’uomo di oggi ha bisogno degli intellettuali, ha bisogno delle scuole, ha bisogno di spalancare le braccia all’immigrato, ha bisogno di capire se gay è giusto o è sbagliato, ha bisogno di trovare una soluzione al problema del lavoro, alla povertà, alla corruzione politica e non, ha bisogno di trovare il coraggio di liberarsi da ogni sovrastruttura che limiti la sua capacità di conoscere e discernere … l’uomo ha bisogno della cultura e solo in pochi lo sanno.