Quella strana gravità su Titano

Creato il 28 agosto 2013 da Media Inaf

Titano visto dalla sonda Cassini (NASA/ESA/ASI)

Avvolto dalla sua spessa atmosfera, in gran parte composta da azoto e metano, Titano, il maggiore tra i satelliti di Saturno, è stato a lungo un oggetto celeste praticamente sconosciuto. Solo negli ultimi anni ha cominciato a rivelarci i suoi segreti, grazie soprattutto alla missione NASA-ESA-ASI Cassini-Huygens. In particolare il radar di Cassini, fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), ha permesso di investigarne la superficie, mostrando che Titano non presenta grandi rilievi e a livello locale le maggiori montagne, che si concentrano in prossimità dell’equatore, hanno un’elevazione che non supera i 1.500 metri. Su scala globale invece, le differenze medie di elevazione sono dell’ordine delle decine di metri.

A queste informazioni si aggiunge ora un lavoro guidato da Dough Hemingway dell’Università della California a Santa Cruz, pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature. Nel loro studio, Hemingway e collaboratori hanno messo a confronto le mappe topografiche della luna ottenute da Cassini con le misure di gravità, rilevando una sorprendente caratteristica. Che cioè, nelle zone mediamente più elevate, la forza di gravità esercitata dal corpo celeste si riduce leggermente. Al contrario, dove ci sono depressioni rispetto al livello zero della superficie si registra un rafforzamento del campo gravitazionale. Un comportamento del tutto inatteso poiché, essendo la forza di gravità direttamente legata alla massa, ci si attenderebbe un risultato esattamente opposto: dove c’è più materia, e quindi in presenza di rilievi, il campo gravitazionale dovrebbe essere più intenso.

“In pratica, l’eccesso di massa dovuto alla presenza di rilievi in superficie viene soverchiato da anomalie di massa che si genererebbero invece alla base della crosta” spiega Federico Tosi, ricercatore dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF. “Per valutare correttamente questo risultato, devono essere considerati anche processi globali di erosione o sedimentazione che hanno luogo in superficie e che trasformano la topografia su tempi scala geologici, così come processi di congelamento o fusione che invece hanno luogo alla base della crosta”.

Tre modelli che spiegano l’evoluzione della topografia e della gravità di Titano al variare del livello di congelamento alla base della crosta ghiacciata. A sinistra: un guscio sottile di ghiaccio viene rapidamente sollevato per bilanciare il carico galleggiante alla base. Al centro: un guscio rigido di ghiaccio si deforma meno, determinando un’anomalia gravitazionale ancora leggermente positiva. A destra: l’erosione prodotta dall’atmosfera di Titano riduce l’altezza dei rilievi via via che tendono a sollevarsi e producendo così un’anomalia gravitazionale negativa. Crediti: Doug Hemingway (cliccare sull’immagine per visualizzare l’animazione)

Da precedenti studi è stato suggerito che la crosta ghiacciata di Titano debba avere uno spessore compreso tra 50 e 200 km, e che non sia rigidamente ancorata agli strati più profondi del corpo celeste, ma che sia sostenuta forse da uno strato liquido, il cosiddetto oceano sottosuperficiale, ricco in ammoniaca (un composto “antigelo” che miscelato all’acqua ne abbassa il punto di fusione).

“Per giustificare le anomalie di massa, però, la porzione rigida della crosta potrebbe essere maggiore di quanto finora stimato, e quindi il momento d’inerzia di Titano (ossia la misura di come la massa si distribuisce al suo interno) maggiore di quanto finora ritenuto, dando vigore alla teoria secondo la quale Titano non sarebbe un corpo pienamente differenziato” prosegue Tosi. “Al contrario, una significativa attività geologica in superficie (in particolare criovulcanismo, mai osservato con certezza su Titano ma suggerito in pochissimi casi ben selezionati sulla base della combinazione di misure radar e spettroscopiche) richiederebbe una crosta mediamente meno rigida, e interessata da importanti fenomeni convettivi al suo interno”.

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani


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