Quella volta che ho scoperto l’inutilità della biografia

Creato il 18 ottobre 2013 da Maria Grazia @MGraziaPiem

Ai tempi dell’Università c’era un mio compagno di corso che diceva cose curiose. Per esempio, ripeteva spesso che quando sarebbe diventato un professore di Lettere non avrebbe mai spiegato ai suoi alunni la vita degli autori. “È inutile”, diceva. “Di un autore serve solo leggere le opere”, ripeteva.

La prima volta che lo disse io mi arrabbiai. La seconda volta mi infastidì. La terza mi convinsi che si trattava di un compagno di studi abbastanza miope oltre che evidentemente ripetitivo.
A distanza di sette anni da allora, a volte mi capita ancora di pensare a quella riflessione e non c’è niente da fare: la trovo assurda.

Sarebbe come dire che la poetica del fanciullino è slegata dalle vicende familiari di Giovanni Pascoli, che le biografie in prefazione ai libri siano parole buttate al vento e che, se hai un sito o un blog non è necessario presentarsi a chi ti legge.
Senza inquadrare un autore nel suo tempo storico sarebbe lecito credere che qualsiasi cosa scritta sia una fantasia nata chissà perché e chissà in quale angolo recondito della mente dello scrittore. Come la precarietà raccontata da Michela Murgia in “Il mondo deve sapere”, il pensiero dirompente di Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” o l’olocausto del “Diario di Anna Frank”.

Anzi, pensandoci meglio: scegliere di leggere un libro o seguire un blog significa riconoscersi nell’autore, fidarsi di ciò che scrive o semplicemente considerare piacevole la sua compagnia. Quindi, in sostanza, è come relazionarsi a qualcuno e capire che ok, ci piace e vogliamo approfondire la conoscenza, sapere chi è, cosa fa e cosa ha fatto per arrivarci.


Se la biografia degli autori è inutile, lo è anche la scintilla da cui è nato un racconto
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 l’emozione che si è espressa in poesia e lo studio che è diventato competenza, lavoro e anche curriculum.

Quella volta che ho scoperto l’inutilità della biografia credevo che l’unicità di una vita facesse la differenza.
Il bello è che continuo a pensarla ancora così, il brutto – secondo me – è che quel mio compagno di Università oggi è un’insegnante.

E tu, come la pensi?


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