Quella volta che vidi la Macara

Creato il 24 febbraio 2015 da Cultura Salentina

24 febbraio 2015 di Redazione

di Lorenzo De Donno

Caremma salentina

Nel Salento i demoni non amano la notte. Nei pomeriggi d’estate, quando il caldo diventa insopportabile e i raggi del sole così bianchi da saturare il cielo e da accecare la vista, abitano la lama di spazio impercettibile che esiste fra la luce e l’ombra. Pochi sono consapevoli di quanto si possa essere vulnerabili attraversando quella linea, anche per una sola frazione di secondo.

Sembrerebbe assodato che l’assenza di controllo di pochi attimi, che coincide con il momento in cui, uscendo da un luogo buio, il sole colpisce la retina, sia un fenomeno fisiologico, dovuto alla necessità di adattamento ad una diversa condizione di luce. Ma se fosse, invece, l’opera di un demone che ci spinge, praticamente ciechi, verso un errore fatale?

I “demoni pomeridiani” della nostra terra li ho scoperti leggendo un bellissimo romanzo di Cotroneo, ambientato ed intitolato ad Otranto, che conservo, autografato dall’autore, fra gli oggetti più cari. Ma io, in verità, ne ho sempre avuta l’inconscia consapevolezza. E quel libro mi ha risvegliato il ricordo di una storia che avevo quasi dimenticato …

Nei pomeriggi assolati il mio nonno materno, stanco dai lavori in campagna, ci invitava a riposare perché, solo dormendo e con gli scuri delle finestre ben chiusi, avremmo potuto evitare i malefici delle “macare” (le streghe salentine) che, alla piena luce del pomeriggio, solevano vagare – secondo le sue storie – per le terrazze ed i giardini delle case per rapire i bambini insonni. Non c’era barriera che potesse fermarle. Potevano volare, saltare di casa in casa, arrampicarsi su un muro senza appigli, scendere in un baleno dalla tromba di una scala fin dentro alla casa. Cosa ne facevano dei bambini rapiti? Non era dato di sapere la loro sorte … La cosa ne accresceva il mistero ed il terrore.

Ricordo perfettamente il rito del riposo pomeridiano nella casa di mio nonno, nel centro di Maglie. Una sola, grande, stanza da letto con alti soffitti a stella e con il pavimento leggermente più basso rispetto al livello della strada sulla quale si affacciava, caratteristiche che la rendevano freschissima d’estate. Dall’attigua cucina, una credenza ottocentesca, ridipinta di celeste per renderla conforme ai gusti degli anni 60, faceva filtrare fino alla camera da letto una fusione di aromi diversi che si miscelavano in un solo profumo che sapeva di caffè, cannella, zucchero e pepe.

Un enorme letto di ferro occupava buona parte della stanza. Ci stendevamo, senza convinzione, sulle lenzuola bianche e ruvide, che odoravano ancora della lisciva di cenere, con il rammarico di aver lasciato a metà, nel cortile in comune con altre case vicine, una sfida a campana, a biglie o a “pituddhi” (un gioco di destrezza che si faceva con dei sassolini levigati, scelti con cura lungo i margini della strada). Prima di dormire, però, occorreva scacciare le mosche che immancabilmente si erano introdotte in casa, attirate dagli odori del “cucinato”. Bastava oscurare la stanza e poi socchiudere ritmicamente una sola anta della porta che dava nella corte perché le fastidiose ospiti, che rifuggono il buio, si dirigessero verso il ventaglio di luce che si apriva e chiudeva ad intervalli. Uno di noi completava l’opera, attendendo le mosche al varco e spingendole fuori roteando uno straccio.

Qualcuna di esse scappava alla complessa e, tutto sommato, incruenta operazione di allontanamento e rimaneva, quindi, a volare in tondo per la stanza, intorno al lampadario. Ne sentivamo il ronzio, mentre cedevamo al sonno, scandito dal ticchettio di una grossa sveglia meccanica. Ci addormentavamo con quello strano aroma di caffè, pepe e cannella nelle narici. E lo zucchero? Lo zucchero è la sostanza più neutra fra gli odori che ho citato. Eppure è la più potente, perché trascende i sensi: ha il profumo della dolcezza del ricordo di quei momenti e di quelle persone care.

A casa nostra, per fortuna, le regole erano meno ferree e noi ne approfittavamo. La casa più grande ci consentiva, inoltre, di uscire dalla camera senza essere visti e di continuare indisturbati i nostri giochi. Uno di quei pomeriggi, mentre i genitori si erano assopiti, io e la mia sorella maggiore scivolammo silenziosamente dal letto. Avevamo costruito un rudimentale telefono utilizzando cartone e spago e lo avevamo appeso al muro, come se fosse l’apparecchio di una in una cabina telefonica. Lei frequentava già la scuola elementare e, per divertire me, fingeva (o forse ne era veramente convinta) di chiamare le sue compagne, riferendomi quello che immaginava le dicessero. Si trattava di barzellette o fatti divertenti. Riusciva a farmi ridere fino a perdere il fiato, inventando storie curiose nelle quali la sua amica più antipatica finiva quasi sempre dal dottore per farsi togliere dei grossi brufoli, grossi quanto una ciliegia, quanto una mela, quanto un melone !!!

Quel pomeriggio ci eravamo seduti per terra perché faceva caldissimo e il contatto con il pavimento sembrava rinfrescarci le gambe ed i piedi nudi. Io davo le spalle al lungo corridoio che conduceva alla cucina. Lei, di fronte a me, reggeva con una mano la finta cornetta di cartone e con l’altra gesticolava mentre mi raccontava, sottovoce, una nuova storia della sua amica. Io, come sempre, la ascoltavo divertito.

Ad un tratto si ammutolì. La guardai in viso, era bianca come una morta ed aveva gli occhi sbarrati. Cercava di parlare ma dalla sua bocca non uscivano suoni. Mi indicava qualcosa alle mie spalle. Mi voltai ma non vidi nulla. Mi alzai, andai in fondo al corridoio, entrai in cucina: niente. Cosa aveva visto di così terrificante?

Quando si riprese mi disse che aveva visto una figura di donna in abito nero e con la faccia oscurata da un velo. Si era affacciata dalla cucina nel corridoio e poi, lentamente come si era presentata, si era ritratta. Non c’erano dubbi, per lei era una macara che, saltando di tetto in tetto alla ricerca di bambini disubbidienti, ci aveva scoperti svegli ed era entrata in casa scavalcando il muretto che separava la nostra terrazza da quella del condominio confinante. Ne fu turbata per un po’ e, alla fine, fu contenta di non essere stata rapita, ed io con lei.

Il fatto fu riferito in famiglia ma – ovviamente – non gli fu dato il peso che ci aspettavamo. Trovarono subito una spiegazione logica. In quel corridoio, proprio prima della porta da cui si era affacciato quell’essere terrificante, c’era un attaccapanni a muro con degli indumenti scuri appesi. Ci dissero che un colpo di vento, penetrato dalle finestre spalancate, probabilmente aveva sollevato il lembo di uno di quegli abiti, al quale la fantasia di mia sorella aveva attribuito, poi, forme e contenuti.

Nonostante la loro spiegazione razionale, cogliemmo una certa soddisfazione da parte dei grandi, come se considerassero questa storia una sorta di punizione o ammonizione (peraltro auto-inflitta) per aver trasgredito la regola del riposo obbligatorio dopo pranzo. Io e mia sorella, invece, ci convincemmo che la macara, per un motivo a noi sconosciuto, non ci aveva voluto prendere e che, quindi, non sarebbe più ritornata. Perseverammo nel non voler dormire e nei nostri passatempi pomeridiani ma … con un occhio vigile sempre rivolto alla cucina.

Io credetti a mia sorella e mi piace crederle tutt’oggi perché, nel corso degli anni, non ha mai voluto cambiare la sua versione dei fatti, nonostante le consapevolezze raggiunte con la maturità e le esperienze di vita. Dovrei credere anche alla Befana ed a Babbo Natale? Se fossi convinto di averli visti … forse! Ero troppo piccolo e non posso garantire di non essere stato io stesso, per proteggermi da un fatto così spaventoso, ad aver subito rimosso quell’immagine terrificante che mia sorella ricorda invece, ancora oggi, lucidamente e fin nei particolari. Ho ancora vivo, però, il ricordo della paura stampata sul suo volto e la percezione di pericolo incombente che mi trasmise immediatamente. Lei è una che non ha mai detto bugie, neanche nelle situazioni più scomode, per questo mi sento di dire che anch’io, quella volta, ho visto la macara!


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