Quelle pagine un po’ così

Da Marcofre

Come sanno anche i paracarri, la pratica aiuta. Qualunque sia il campo nel quale si sceglie di esercitare il proprio talento, solo il duro lavoro aiuta a migliorare. Questo non vuol dire che si diventa davvero superlativi: ma migliori, e basta.

Me ne rendo conto: si tratta di un’ovvietà. Però in questi ultimi tempi tutto o quasi viene rimesso in discussione, e diventa quasi indispensabile fare un poco di chiarezza. I difetti dell’individuo restano, nonostante successi (pochi) e impegno quotidiano; magari si può renderli meno vistosi. Però il talento (quando c’è), la pratica quotidiana della scrittura, si limitano a rendere più forti e limpidi gli ingredienti che già esistono.

Alcuni autori non hanno mai praticato il romanzo (come Cechov, anche Raymond Carver, benché sia rimasto un frammento di un romanzo, al quale lavorava prima di morire). Non lo sentivano nelle loro corde. Non possedevano forse la necessaria determinazione per sedersi e passare alcuni anni (anni, non settimane) su una storia.
Meglio il racconto, certo.

L’idea di mettersi alla scrivania e restare inchiodati su una storia per un paio di anni, non piaceva molto nemmeno a Flannery O’Connor (però lei ha scritto dei romanzi).
Rilassiamoci. Investiamo tutto quello che possiamo sul nostro talento ma non preoccupiamoci se certe cose ci resteranno precluse. Voler ottenere di più, essere di più, rischia di allontanarci da quello che conta. E quello che conta è appunto (quando c’è): il talento.

Fine.

Perché questo discorso? Buona domanda, sul serio.
La tecnologia, le reti sociali, spesso insinuano in ciascuno di noi l’idea di essere soggetti a un miglioramento costante e inarrestabile. Davanti a noi, tanti gradini che ci porteranno sempre più in alto. Basta muoversi.

Per fortuna non è così.
Muoversi è giusto e necessario, ma solo dopo che si è compreso cosa si vuole ottenere. Allora, diventerà quasi naturale fare una cernita di quello che possiamo conseguire, e ciò che invece è al di fuori delle nostre forze.

È sciocco chiedere la perfezione a un autore. Una volta per esempio, pensavo che Tolstoj fosse perfetto, pure Dostoevskij. Leggevo le loro opere, eppure non le leggevo. Vedevo la forza che sprigionava dalle loro pagine, ma rimuovevo (non è esatto: non vedevo affatto) tutto quello che girava a vuoto, o male.
Sì, uno scrittore ha delle pagine un po’ così. Succede. Si ficca in una situazione e ne esce maluccio. Magari è al quarto libro e il lettore pensa: “Ma non poteva stare più attento?”

Forse, ma non lo è stato.
Questo accade perché a un certo punto, le storie finiscono, ma è difficile smettere. Se sai fare solo quello, come diavolo è possibile dire: “Be’, non ho più niente da dire. È stato un piacere, vi saluto”?

Oppure si sbaglia storia, ci si incammina in qualcosa che è al di là delle proprie capacità; e si cade.
Lo scopo di una storia è di essere efficace e di valore. Questo si ottiene dopo che si è annusato i propri limiti, si è fatto pace con essi, e si è lavorato su quello che si ha.
Inutile lavorare su quello che forse ci sarà un giorno, là davanti, in quella dimensione incerta che si chiama avvenire.

Non sto affermando che occorre accontentarsi, e sdraiarsi nella mediocrità. Non è possibile ottenere tutto. Meglio perciò non ascoltare troppo certi consigli, e badare solo a custodire e nutrire al meglio il proprio talento. Ammesso che ci sia. Il talento non risolve tutto. Probabilmente, permette di svolgere certi compiti con una bellezza e forza che gli altri non hanno. Molti amano dipingere, ma il talento distingue tra chi dipinge, e l’artista.

Tutti scrivono. Ma certe scritture mordono, e sono queste che prima o poi (il più delle volte poi) arrivano ai lettori. Non quelli contemporanei all’autore, bensì della generazione seguente, o di due generazioni seguenti.
A volte, mai.

Ecco, forse il punto di tutto questo post è qui. Mi spiace non essere riuscito a condensarlo meglio. Però è talmente precario lo scrivere, e la sorte è tanto bislacca, che l’unica cosa che c’è da fare, è proteggere il talento e non pretendere che risolva tutto. Non risolve molto, in verità. Quello che può fare è confezionare storie efficaci e di valore. Dentro i limiti del suo autore, e basta.


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