Quello che canta Onliù

Creato il 31 marzo 2013 da Marina Viola @marinaviola


Tornavo da un viaggio in macchina di più di un’ora fatto con il cuore pesante per l’agonia di mio suocero, che infatti è morto qualche ora dopo. L’agonia sua, e quella di Dan, che amo follemente e che ha già perso la sua mamma un anno emmezzo prima. Ero entrata nella stanza dove mio suocero stava morendo pronta per dare supporto, ma invece non ce l’ho fatta a vederlo così, a vedere Dan di fianco a lui che gli teneva la mano e aspettava paziente e triste l’ultimo affanno di respiro prima del silenzio eterno.
Tornata a casa, dove avevo lasciato i miei tre bimbi da soli per più di tre ore, ho acceso il computer e dal monitor è uscita una pistola e mi sparato in faccia: leggo che è morto Enzo. Jannacci, dico: quello che canta Onliù. Il pianto è stato all’inizio composto, e poi con le immagini che avevano cominciato a passarmi davanti agli occhi, è diventato singhiozzo, e poi strazio.Squilla il telefono: mia madre, anche lei provata mi dà la notizia. “Se ne è andata un pezzo importante della mia vita. La parte migliore della mia vita con tuo padre. Se fosse ancora vivo, sarebbe distrutto”. Si, perché mia madre, mio padre e Enzo si conoscono da quando erano piccolini, e insieme hanno condiviso matrimoni, nascite, viaggi, successo, delusioni e tante tante risate.Qualche setimana fa Enzo aveva fatto sapere a mia mamma che avrebbe voluto vederla presto, e mia madre cercò di andare, ma non era la giornata giusta, Enzo aveva passato una nottataccia. Si era ripromessa di andare al più presto. E invece bum.Poi io e Anna, mia sorella, abbiamo passato più di un’ora a ricordarci, anche noi, di quel pezzo di vita: Enzo che andava in giro con un tubetto di dentifricio e se ne sparava un po’ in bocca dopo aver fumato. Enzo che aveva beccato Anna limonare in macchina con un moroso e aveva aperto la portiera, l’aveva tirata fuori dalla macchina e l’aveva portata fino al portone, incazzato nero. Enzo che aveva scritto col gesso sul muro dove parcheggiava la sua Lambretta insulti al tipo che faceva pisciare il cane sulla moto. La sua mamma, che ogni volta che ci incontrava diceva: ”Vorighe ben al mio Ensin!”, e ci faceva vedere i cassetti delle mutande e delle calze e diceva: “Guarda com’è ordinato el mio Enso!” Io invece Enzo lo avevo sentito subito dopo che gli avevo scritto una lettera, in cui, da nostalgica che sono, gli ricordavo dei bei momenti passati insieme a casa nostra, a casa sua, al mare in Liguria. Gli ricordavo di quando venni operata di appendicite e lui mi venne a trovare in ospedale. Io ero ancora rintronata dall’anestesia e lui chiese a mio padre il nome del chirurgo. Saputolo disse: “No, è un macellaio!”. Gli ricordavo di quando portai il mio allora fidanzato e ora marito da lui nel suo ambulatorio, a esattamente quattrocento metri da casa mia, perché aveva mal di stomaco. Gli ricordavo delle volte che mi chiamava Marinin Frin Frin, e della mia prima volta in Lambretta, con lui, a fare i giri della casa. La mia prima chitarra che mi aveva regalato lui, su cui mi insegnò il giro di Do. Le volte che ci diceva guai a voi se so che ascoltate Eros Ramazzotti.E poi gli ricordavo anche le cose tristi: di quando morì mio padre e lui si chiuse nel cesso a piangere forte e poi andammo insieme in chiesa, quando mi stringeva la mano forte come se avesse paura di volare via anche lui, o che volassi via io.Ricevuta la mia lunga lettera, mi aveva chiamato per dirmi come gli aveva fatto piacere riceverla, e che voleva trovare il tempo e la forza di rispondermi al più presto. Mi aveva detto, ‘Si capisce che sei una ragazza molto intelligente’. Mi aveva detto, ‘Si coglie subito nel tuo stile lo stampo di famiglia nel tuo modo di buttarla lì’. Famiglia, in quel caso, di cui lui fece parte. Si, perché Enzo e mio padre erano in sintonia come due fratelli, per quanto riguarda lo stampo: si finivano le frasi, si facevano battutte che solo loro capivano, notavano le stesse cose, le spiegavano allo stesso modo. Uno raccontava una barzelletta all’altro, e poi l’altro la riraccontava aggiungendo dettagli che facevano ancora più ridere. Andavano avanti così per ore. Stessa ironia e stessa malinconia. Stesso sguardo al mondo: un occhio puntato sulle persone semplici, che tanta gente non vuole vedere. L’Armando, il palo della banda dell’Ortica, il Rino, il barbun: erano personaggi che loro incontravano nella Milano di quei tempi, nati da spunti che gli coglievano dalle persone che frequentavano, con cui andavano a giocare a carte e a bere un bel bicchiere di rosso. Quelli un po’ in ombra.Poi, qualche tempo dopo, di getto, scrissi di come invece una sua intervista mi aveva fatto partire l’embolo. Fu un pezzo che fece un certo scalpore, che rivangava un periodo duro, difficile tra lui e mio padre, che loro non riuscirono mai davvero a superare a causa della morte inaspettata e prematura di mio padre. Dopo quel pezzo mi venne come un senso di pudore e smisi di telefonargli per chiedere come stesse, anche se avevo avuto voglia di sentire ancora la sua voce sempre più debole al telefono. E adesso mi spiace tanto non aver trovato il coraggio di tirar su la cornetta e chiamarlo comunque: sono sicura che non fosse arrabbiato con me. Magari l’aver fatto riemergere cose brutte lo aveva rattristito, e mi spiaceva averlo fatto soffrire. O magari lui aveva una versione diversa dalla mia che avrebbe voluto spiegarmi, che io non saprò mai.  Non mi rimane, adesso, che teneremi gelosamente dentro di me i tanti momenti che abbiamo passato insieme. Non mi rimane che affrontare il fatto che un altro pezzo di mio padre, forse il più bello, se ne è andato via ieri, e che mi sono sentita come se mio papà fosse ri-morto. E ho sentito un dolore allucinante.


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