All’ingresso del cerchio dei lussuriosi dell’Inferno dantesco (canto V) ci sta Minosse.
Stavvi Minòs, orribilmente, e ringhia:/essamina le colpe ne l’intrata;/giudica e manda secondo ch’avvinghia./Dico che quando l’anima mal nata/li vien dinanzi, tutta si confessa;/e quel conoscitor de le peccata/vede qual loco d’inferno è da essa;/cignesi con la coda tante volte/quantunque gradi vuol che giù sia messa
Dopo aver ascoltato i loro peccati, Minosse indica ai dannati a quale cerchio sono destinati e, servendosi della sua lunga coda, li colloca nel posto che spetta loro.
Si tratta di un’immagine che ha sempre colpito la mia fantasia e alla quale penso spesso, fin da quando, ai tempi del liceo, mi sono appassionato alla mitologia classica.
E da allora penso che, come, secondo Dante, ciascun dannato è destinatario di un determinato posto (quello che gli spetta, sulla base dei peccati commessi), allo stesso modo ciascuno di noi, al momento della nascita, è destinatario di un determinato destino.
E che, se a determinare il destino dei dannati sono i peccati commessi in vita, a determinare il destino di ciascuno di noi è il nostro passato, il nostro patrimonio genetico, l’albero al quale siamo collegati.
Una mela non cade mai lontano dall’albero, dice un vecchio proverbio.
Secondo gli antichi greci, a presiedere al destino assegnato agli uomini erano le Moire (Cloto, Lachesi e Atropo), che eseguivano il compito loro affidato con freddezza e determinazione.
Secondo la mia fantasia, il destino assegnato agli esseri umani fa sì che ciascuno di noi, al momento della nascita, venga collocato in un determinato piano dell’edificio nel quale immagino che vivano tutti quelli che vengono al mondo.
A ciascuno dei piani di quest’edificio corrisponde una capacità di vedere le cose, una capacità di “visione”, frutto del punto di osservazione che tocca in sorte.
Chi viene collocato in un piano posto in alto “vede” meglio, rispetto a chi è destinato ad un piano inferiore, quel che accade di sotto, nel mondo della vita.
La capacità di un individuo di riuscire a capire meglio di altri la realtà, di “leggerla” meglio, non è quindi che la conseguenza del piano dell’edificio nel quale si trova il posto assegnatogli al momento della nascita, del fatto che quel posto si trovi ad un piano alto o basso.
Chi è in grado di “anticipare” l’accadere di un evento non lo fa perché “indovina” ma perché vede cose che chi sta nei piani più bassi non riesce a vedere, perché dispone, in virtù della posizione alla quale è stato destinato, di elementi che, messi in relazione tra di loro, gli fanno “vedere” quello che sta per accadere.
Voglio dire che la nostra intelligenza, la nostra capacità di vedere, di “leggere” (la parola “intelligenza” deriva dal verbo latino legere), di stabilire delle correlazioni tra elementi (che ad altri sembrano privi di alcun legame), dipende dal piano che occupiamo al momento della nascita.
Il tutto si riduce ad una questione di punti di osservazione.
E questa capacità ce la portiamo addosso per tutta la vita, e non c’è ambiente che possa cambiarla.
Non accade (perché non può accadere) quello che accade in tante occasioni, e cioè che chi, solo perché è in grado di spendere di più, può comprare un biglietto che gli consente di occupare un posto dal quale poter osservare meglio lo spettacolo.
La sola funzione che l’ambiente è in grado di esercitare nella nostra vita (e non è cosa da poco) è quella di consentirci di esprimere le capacità che ci son toccate in sorte al momento della nascita, non certo quella di modificare la nostra “impronta” iniziale.
Un ambiente negativo non dà la possibilità di esprimere al meglio le potenzialità di un individuo, uno positivo, al contrario, le fa emergere.
Ma non c’è ambiente, per quanto positivo, che possa far emergere capacità inesistenti.