"Wish you were here" by slinkachu
Non sento più le gambe. Sono chiuso nel portabagagli del Bmw. Ho le ginocchia al petto, la schiena mi fa un male atroce. Continuo a sputare sangue che mi finisce in bocca non so come, non so da dove. Ogni frenata, ogni curva, è un altro calcio nelle costole. Direi che ho poche vie di fuga, e lo direi, se non fosse che non sono dell’umore adatto per scherzare. Questi sono i titoli di coda, o quasi: finora, nel racconto della mia vita, ho escluso alcuni passaggi, il resoconto di alcune azioni che a prima vista potrebbero sembrare rilevanti. Non l’ho fatto semplicemente perché non era necessario, come in un film non viene spiegato perché lo sceneggiatore ha fatto uscire di scena un personaggio o perché gli abbia messo in bocca una battuta piuttosto che un’altra; ma le attuali circostanze impongono alcune precisazioni.
Quando uscii dalla villetta di Carlito, la notte in cui incontrai i rimasugli umani del mio gruppo operativo, non tornai subito a casa, rimasi per un po’ in auto; non volevo andare via, ma non volevo nemmeno rimanere. Non volevo che quel capitolo si chiudesse così, senza che potessi fare qualcosa, e non volevo rivedere quelle facce, quei corpi, non volevo riascoltare quelle voci che al solo pensiero mi provocavano una specie di rigurgito, portandomi in bocca il sapore del fallimento. Non volevo. Non volevo e non potevo permettere che ciò che avevo creato continuasse senza di me. Senza che io lo volessi. Avevo in macchina un rotolo di nastro adesivo, nastro da imballaggio, forse me lo portavo dietro dai tempi in cui lavoravo con Zapata, col nastro coprii la superficie di una finestra del primo piano, prima seguendo il perimetro, poi le diagonali, come mi aveva insegnato Carlito anni prima, perché quello che fa rumore non è tanto il colpo per rompere il vetro ma l’infrangersi dei pezzi a terra e lo stridore del vetro sul vetro, mi tolsi la maglietta e mi ci fasciai la mano, e colpii, un colpo secco, al centro. La finestra era quella della cucina. Sapevo benissimo cosa fare: al posto mio qualcuno avrebbe semplicemente aperto i rubinetti del gas, ma non io, raccattai un coltello e allentai la cravatta che saldava il tubo del gas al contatore, un tocco di classe: la prima cosa che fa chi si accorge di una perdita di gas è controllare i pomelli della cucina, e possono passare diversi minuti prima che il tipo realizzi che deve chiudere la valvola centrale. Sarebbe stato inutile fare tutto ciò con una finestra rotta che permetteva il ricambio d’aria, quindi prima di uscire dalla finestra tirai giù la tapparella, completamente, poi la forzai usando il coltello di prima come leva e aprii uno spiraglio in cui mi infilai poco alla volta, prima le mani, poi la testa e poi tutto il corpo, stando attento a far cadere il coltello all’esterno della stanza, questa fu la cosa più complicata; non dovevo avere fretta, per fare tutto nel massimo silenzio, ma non potevo nemmeno prendermela con troppa calma, per non essere stordito dal gas. Ero quasi sicuro che i ragazzi non si sarebbero accorti di niente, ubriachi come erano, e prima o poi qualcuno si sarebbe accesso una sigaretta, quello che mi preoccupava era il vicinato, ma nessuno si accorse di niente fino allo scoppio, che avvenne tra le 2:15 e le 2:35, come sostenne un mediocre cronista dalle colonne della nera locale. “Nonostante tutto farebbe pensare ad un tragico incidente, il ritrovamento del corpo di Giacomo Santoro, noto pregiudicato, introduce l’ipotesi di uno spietato regolamento di conti interno alla malavita romana” . Questa frase mi fece sorridere a lungo: a leggere l’articolo Spud veniva fuori come un criminale vero, un boss del narcotraffico, e neanche una parola sull’onesta carriera di Carlito e Bradpitt. Già… Bradpitt, “inutili i soccorsi per le tre vittime” aveva scritto quel fottuto giornalista, ma evidentemente non era così; Bradpitt si era salvato, sicuramente ha conosciuto lo strazio della lungodegenza, magari i medici gli hanno negato lo specchio per settimane, per mesi, allora lui si è fatto un’idea del suo nuovo volto poco alla volta, rubando con lo sguardo il riflesso nel metallo delle brande, nel vetro delle flebo, negli occhi delle infermiere, le uniche donne che da quel momento in poi avrebbero avuto il coraggio di toccarlo.
“Quella donna merita la sua vendetta e noi meritiamo di morire” dice Budd nel finale del primo “Kill Bill”. Mi era sembrata una battuta di una banalità insopportabile, eppure ora non mi esce dalla testa, e mi inietta nelle vene un senso di rassegnata tranquillità: quest’uomo merita la sua vendetta e io merito di morire.
Quella non è stata l’unica volta che ho ucciso. Ho soffocato l’Americano con un cuscino, come in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, la notte del suo capolavoro, quella dell’orologio; è stato tremendamente facile, ha smesso di dimenarsi quasi subito, per un attimo pensai che stesse fingendo, e forse lo fece, forse quello fu il suo ultimo bluff. Ho avvelenato mia nonna, con i semi di stramonio, l’erba delle streghe, li ho messi nel suo minestrone delle venti e trenta, quello prima del rosario. Se ne accorse, ne sono convinto, ma accettò il suo destino senza opporsi, sgranando il rosario fino al definitivo pater noster. L’ultimo prima del delirio e dell’agonia.
L’auto si ferma, il cuore mi pompa vigoroso, ma non sa che i suoi sforzi sono inutili, potrebbe anche fermarsi, anticiperebbe di qualche inutile secondo lo stesso destino, ma lui non lo sa. Il cofano si apre, la luce mi acceca e non riesco a percepire la sagoma del boia.
Io ho ucciso. E non l’ho fatto per legittima difesa, per vendetta o per rabbia, io ho ucciso per esigenze estetiche; ho ucciso i miei ex soci perché un ritorno del nostro gruppo operativo senza di me sarebbe stato patetico, ho ucciso l’Americano perché quello era il momento ideale per la sua uscita di scena, ho ucciso mia nonna perché, ridotta com’era, non poteva dare più niente dal punto di vista narrativo. Spartaco Scimè è colpevole di omicidio, ma non solo, Spartaco Scimè è colpevole di aver avuto la presunzione di decidere il proprio destino, Spartaco Scimè ha pensato di essere lo sceneggiatore della propria vita, l’autore di se stesso e di tutti quelli che hanno avuto la sfiga di conoscerlo.
E non pretendo che questa sia un’attenuante. Non chiedo di essere perdonato. No. Chiedo di non essere giudicato affatto, perché quell’uomo che ha ucciso, tradito, fottuto, non è quello che attende la sua ora chiuso in un portabagagli, come un maiale portato al macello, non è quello che si è fatto fottere per salvare un ragazzino senza palle; non può essere lo stesso.
Io, quello non ero io.
Fine
Quello non ero io by Barabba Marlin is licensed under a Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Unported License.
Based on a work at magaridomani.wordpress.com.