«Voi siete troppo ottimisti. Questo è il vostro unico difetto: siete ancora convinti che questa terra possa essere salvata. Per il resto complimenti davvero, e grazie per ciò che fate, dite, rappresentate». Suonava pressappoco così una delle frasi che più ho ruminato dentro, ricacciandola nei meandri del tour de force che porta il nome di Scilla in passerella, rassegna di declinazioni di un’idea, un progetto, un modo di essere, un orizzonte: #CalabriaOLTRE. Declinazioni che sera dopo sera, fino all’ultima in arrivo, oltre i commissariamenti, si sono intrecciate, mescolate e completate l’un l’altra, senza un vero principio, identificabile come tale, e senza una fine. Il bolo dell’ottimismo “troppo”, difficile da digerire, è arrivato in una di queste declinazioni, durante l’ormai classica pausa tra la prima e la seconda parte della serata, in cui Aldo e Francesco hanno offerto un aperitivo e gli ospiti “parlanti” si sono mescolati agli ospiti “ascoltanti”, confondendo anche loro e tra loro domande e risposte, sensazioni e comune sentire. Mi ha fatto riflettere più del consueto sul vecchio tema di restanze e partenze. Di ultimo treno perso, di impossibilità di redenzione o di salvezza di questa mia/nostra/vostra/loro Calabria.
Il bolo va su e giù. Non cala. Ritorna. Si ripresenta, sempre più indigeribile. E la domanda diventa mia: sono troppo ottimista? Poi arriva una risposta secca. Che lascia in bocca, al posto del bolo ruminato e digerito con condanna definitiva, l’amaro sapore di una guerra senza vincitori.
Forse aveva ragione Camus, quando nella sua peste scriveva «Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare». O forse bisogna ascoltareLa forza della ragione di Oriana Fallaci: «Ogni nostro gesto è un atto di guerra. Ogni nostra azione quotidiana è una forma di guerra che esercitiamo contro qualcuno o qualcosa». O la Guerra e pace di Hermann Hesse: «Finché l’uomo resta un animale, vive per il combattimento, a spese degli altri, teme e odia il prossimo. − La vita, quindi, è guerra».
Di qualunque guerra si tratti, è sicuramente stupida come ogni guerra. Inutile, come ogni guerra. E rabbiosa. Disumana. Come ogni rancore, come ogni odio. Una guerra in cui siamo tutti contro tutti. In cui i personaggi si muovono sulla scena accusandosi, accusando, facendosi accusare. E le persone dimenticano di essere persone, diventano personaggi, dividono il mondo in due blocchi: chi-sta-con-me e chi-no. E chiunque spara quello che ha. Come in alcuni racconti di capodanno, buttando dal balcone ogni cosa, utile e inutile, preziosa e no.
E si fa la conta. Si sta a guardare chi sta con chi. Si punta il dito. Si mietono vittime. Si butta nel calderone ogni cosa. Ogni gesto. Ogni parola. Si strumentalizza, si alzano indici. Si urla più forte per far percepire la propria voce in questo orwelliano mondo dell’inganno universale. Si massacra. Si distrugge. Si incensa, si fa diventare vittima consacrata e onorata. Il tempo di un flash di agenzia. Il tempo di un fondo urlato. Il tempo di perdere il tempo e concentrarlo sul nulla.
Rigurgito. Non capisco più. Non so più da che parte stare. Non so più qual è la parte. Perché ho deciso, da piemontese sabauda con addosso questa cicatrice indelebile – anche questo mi è stato amabilmente contestato in una serata di pausa aperitivo –, di raccontare la Calabria che amo, quella che mi fa sentire calabrese nel profondo, quella che in silenzio sopporta e spera. E mi trovo di fronte a tante, troppe Calabrie divise da un rancore antico, in cui il cu apparteni non è senso di appartenenza, ma sudditanza.
Poi, quando il bolo inizia a consumarsi, quando il tempo cancella le notizie urlate, arriva un altro rigurgito. È un rigurgito di poteri forti. Orwelliano, ancora. Certa stampa che fa la guerra alla magistratura. Certa stampa nazionale che strumentalizza la magistratura. Certa politica che vorrebbe controllare la magistratura. Certe istituzioni commissariate dalla non politica. Un giro vizioso e continuo, l’un contro l’altro armati, accecati dalla voglia di veder decretata la propria vittoria, costi quel che costi. Brave, ottime persone che si fanno la guerra. Rischiando di ri-degenerare in caste e in fazioni interne alle caste.
Ho letto il pezzo di Aldo Varano sul “caso Lamberti”. Chi mi conosce sa cosa penso di Edi: non ho mai smesso di ripeterlo, in privato e in pubblico, scrivendo e riscrivendo su di lui anche e soprattutto quando era circondato da silenzi imbarazzanti. Condivido e sottoscrivo totalmente il “non ci credo” triplicato da Aldo, senza aggiungere altro. Perché io scendo da questa giostra. Scendo qui e ora: l’appartenenza ha ben altro significato.
Appartengo, ad esempio, a chi crede nelle persone e non nei personaggi. Nella verità e nella sua ricerca, e non nella sua rappresentazione. Nella giustizia e nella magistratura, come nella libertà di stampa, e non nel giustizialismo o nel garantismo per partito preso. Nella Calabria vera, bella e pulita, che esiste e che stiamo cercando, tutti insieme, di affogare. Nella capacità di scindere le simpatie/antipatie personali dalla professione – e di conseguenza dalla professionalità. Anche e soprattutto nel vasto mondo della comunicazione, in cui si rischia, con il messaggio sbagliato, di far passare una convinzione opposta alla verità. Citando Oliviero Toscani: «Terroni? Malavitosi? Incivili? Omertosi? Ultimi della classe? Sì, siamo calabresi». [sciroccoNEWS]
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