Buongiorno!È giunta l'ora della prima puntata di Questione di incipit, nuova rubrica settimanale che verrà pubblicata ogni mercoledì. Lo so, lo so. Oggi è giovedì, c'avete ragione. Però non stavo nella pelle e quindi mi sono detta che in fondo non era un problema mostrarvela in anteprima, giusto? Giusto. Dopo oggi, comunque, ci si vede ogni mercoledì.Che cosa è Questione di incipit? Ogni settimana vi riporterò l'incipit del libro che sto leggendo. Ovviamente, in questo, c'è qualcosa di bello solo se vi interessa il libro che sto leggendo. Magari, invece, non ve ne po' fregà di meno.Ho così deciso di riportare due incipit. Certo, se non ve ne frega niente di uno, pensa di due! E invece no! Perché? Perché il primo incipit è del libro che sto leggendo e il secondo di uno di quei libri di cui vi parlo il lunedì appositamente scelto per essere letto e recensito. Ovviamente, oltre che all'identità dell'autrice, ha il suo peso nella scelta anche il tipo di incipit e cioè se questo presenta elementi che reputo interessanti dal punto di vista del trash. Voi lo sapete che nulla è normale da queste parti, quindi... Buona lettura!
PrologoCanzone d'amore
Questa non è la canzone d'amore di Aganetha Smart.No, e non parlatemi di stanchezza e di meritato riposo.
Per tutta la vita non ho fatto altro che andare da qualche parte, mirando un punto fisso all'orizzonte che sembrava non avvicinarsi mai. All'inizio l'ho inseguito con abbandono, con fiducia, poi con una certa frustrazione, con dolore, e ancora più avanti con la lucidità di un'artista della fuga. Ormai è troppo tardi per fermarmi, anche se corro solo nella mente, per abitudine.Fai quello che fai finché sei finito. Sei quello che sei finché non ci sei più.
Mi chiamo Aganetha Smart e ho centoquattro anni. Non crediate che sia un vantaggio.Sono sopravvissuta a tutte le persone che ho amato, e a tutte quelle che mi hanno amato. Non sono nemmeno invecchiata bene. Basta guardarmi.Sono circondata da sconosciuti. Di giorno mi piazzano su una sedia a rotelle, in una stanza che sa di grasso di pollo e pannolini. Di notte vengo issata su un letto rigido e schiacciata da una coperta che puzza di ammoniaca.
Questa routine dura da molto, troppo tempo. Sono un po' sorda – ma non quanto credono – e quasi cieca, quindi devo ammettere che la mia capacità descrittiva non è proprio al meglio. È del tutto possibile che io stia vivendo in una cattedrale di luce e che dorma in un letto a baldacchino, senza potermeli godere. Ma ho il sospetto che non sia così: il mio olfatto funziona perfettamente.Per quanto riguarda il parlare, non sempre le frasi mi escono dalla bocca seguendo il mio comando.
Faccio molta fatica a farmi capire. È tanto più facile biascicare pigramente una serie di parole sconnesse ma familiari, quelle che rimangono in attesa sulla punta della lingua, da usare in caso di emergenza o per le buone maniere: «Be', adesso, non saprei, ma perché...»È una barriera, non fingo che sia diverso.
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Prologo
Aveva la fronte madida di sudore e il respiro irregolare, ma non sembrava malata. La sua pelle non aveva quel colorito roseo, luminoso di sempre e i suoi occhi non erano più tanto vivi, però era ugualmente bella. La donna più bella che avessi mai visto.
La mano le cadde oltre il bordo del letto e contrasse un dito. Feci scorrere lo sguardo dalle unghie fragili, già in parte ingiallite, al braccio esile, alla spalla, per posarlo infine sui suoi occhi. Mi stava guardando, le palpebre appena socchiuse, ma era consapevole della mia presenza. Era una cosa che adoravo di lei: quando mi guardava, mi vedeva davvero. Non pensava all’infinità di lavori da sbrigare durante il giorno né si mostrava indifferente alle mie stupide storie. Mi ascoltava, ed era felice di farlo. Tutti gli altri annuivano senza prestarmi attenzione, lei no. Mai.
«Travis», disse con voce rauca. Se la schiarì e sorrise.«Vieni qui, cucciolo. Va tutto bene. Vieni qui.»Papà mi toccò la nuca e mi spinse in avanti, ascoltando nel contempo l’infermiera. La chiamava Becky. Era arrivata alcuni giorni prima. Parlava in modo dolce e aveva uno sguardo buono, però a me non piaceva. Non capivo perché, ma la sua presenza mi faceva paura. Sapevo che probabilmente era lì per darci una mano, eppure non era un bene, anche se papà era contento che ci fosse.Grazie alla sua spinta arrivai abbastanza vicino alla mamma perché potesse toccarmi. Allungò le sue dita eleganti e mi sfiorò il braccio. «Va tutto bene, Travis», sussurrò. «La mamma vuole dirti una cosa.»
Mi cacciai il dito in bocca e me lo passai sulle gengive, in preda all’agitazione. Il suo sorriso si allargava quando mi vedeva annuire, perciò mi assicurai di muovere bene la testa mentre mi avvicinavo.Con quel po’ di forze che le restavano mi attirò a sé e fece un respiro. «Quello che ti sto per chiedere è molto difficile, figliolo. Ma so che ce la puoi fare, perché adesso sei grande.»
Assentii di nuovo ricambiandola con un sorriso, anche se forzato. Non mi sembrava il caso di sorridere visto che appariva tanto stanca e sofferente, ma mostrarsi coraggiosi la rendeva felice e quindi lo feci.
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Premesso che non so di cosa si stia parlando, credo della morte della mamma di quel coatto di Trevis, ma quel "mi cacciai il dito in bocca e me lo passai sulle gengive"? Ma perché? Generalmente così ci si testa la cocaina, ma non me la sento di esprimere giudizi avventati sui personaggi ancor prima di averlo letto. Anche se Trevis è coatto che aiutateme a dì coatto. Uno di quelli da cappellino invernale pure ad agosto, per intenderci. Inutile dire che sono quasi più curiosa di leggere l'amica McGuire piuttosto che Girl runner, la mia naturale predisposizione al trash si fa sentire e scalpita nelle vene. Già partiamo male con questo riferimento alle gengive, sono sicura che andando avanti sarà ancora meglio.
Ditemi, voi da quale incipit siete più incuriositi? E, soprattutto, che ne pensate del dito sulle gengive? C'è qualche dettaglio che mi sfugge, qualche pratica esoterica di cui non sono a conoscenza e che richiede l'uso delle gengive? Fatemi sapere!