Qui che c'è da sapere, prof?

Creato il 26 settembre 2014 da Spaceoddity
Arriva il giorno in cui hai preparato tutto, hai proprio in quell'aula la LIM, sei stato in grado di fare per tempo le fotocopie (e misteriosamente l'apparecchio malefico non ha dato forfait), ti senti ispirato e cominci la tua lezione. L'hai strutturata per loro, quella lezione, pensavi proprio a Piero e a Giovanna. Non c'è errore di sorta. Ma a un certo punto, qualcuno dal banco, con l'aria sempre un po' annoiata, alza la mano (se proprio è educato) e dice: "Qui che c'è da sapere, prof?".
Come dire, niente teatro. Lasciamo perdere, veniamo al dunque. Cos'è che ci chiede poi?
Ora: tu hai differenziato i colori, hai usato il grassetto, il corsivo, il sottolineato, il testo ha già una sua architettura e una sua gerarchia precisa (che magari loro conoscono pure), ma questo non basta alla necessità di sintesi, alla necessità dei ragazzi di strizzare l'essenziale - ciò di cui noi professori non possiamo fare a meno - da tutta la tua messa in scena. Anni a studiare Vigotsky e Dewey, apprendimento cooperativo e quel che segue; giornate a preparare il laboratorio e ti chiedono soltanto:
Qui che c'è da sapere, prof?

Parlare di sconforto non rende l'idea (anche perché questa è già una situazione quasi auspicabile, di solito va molto peggio). Una persona di media intelligenza non applica in modo meccanico un'idea: si smussano gli angoli, si combinano gli approcci a partire da quel che davvero accade in quella classe. Fare lezione significa creare un ambiente nel quale l'apprendimento sia possibile e desiderabile - o, al limite, dove comunque avvenga in virtù di specchietti per le allodole messi con sapienza dal docente.
(Qualunque pregiudizio in base al quale quel contenuto catturerà l'attenzione dei ragazzi è risibi le:non conoscono ancora ciò che stai per insegnar loro e hanno questioni molto più urgenti e "concrete" da affrontare.)

Tutto ciò, se mai ce ne fosse bisogno, è una delle mille prove possibili della scarsa considerazione di cui gode la scuola oggi. Nella migliore delle ipotesi, i ragazzi accettano di essere istruiti - più o meno controvoglia, però lo possono ancora accettare - contando magari su qualche evento provvidenziale che li smagnetizzi o addirittura li affranchi (ma magari loro direbbero "li formatti") da tutto ciò. Qualunque sia l'evento, quasi tutto quello che si fa a scuola viene perlopiù catalogato come effimero, un male necessario.
(Dopo, però, dopo, quando tutto questo finirà, ti farò vedere io, ti farò vedere.)
L'istruzione che ancora loro sopportano non richiede coinvolgimento: senza generalizzare, è proprio il contrario di ciò che si dice di solito, perché i ragazzi non vogliono affatto essere coinvolti, e talvolta si stancano pure di essere intrattenuti. Sbrigano faccende, portano avanti quel che devono, ma non ricavano dal loro studio nessuna inquietudine, anzi fanno di tutto per scongiurarla. Per questo prediligono le materie pratiche: si presentano loro come discipline delle soluzioni, non dei problemi.
(Fateci caso: con quanta attenzione ascoltano il testo del "problema"? Intendo anche di quello pratico.)
E d'altra parte, come si può ragionare in termini di ampio respiro con una scuola dove la continuità didattica è un miraggio strombazzato ovunque, dove ogni anno il docente è diverso e deve portare avanti i ragazzi mettendo un piede nella sua classe sempre più tardi? Non è una questione secondaria: senza progettazione a lunga scadenza, il docente non può che affrontare una casistica limitata, i ragazzi si abituano a schematizzare, ad affrontare un panorama limitato.
I ragazzi affrontano più persone, ma imparano a essere furbi, e che ci vuole a essere furbi?

La scuola deve affinare l'intelligenza, deve puntare alla profondità, deve essere un laboratorio aperto alle esperienze. Un luogo dove tutto è da imparare. Poi sarà compito del professore indirizzare i ragazzi verso ciò che ritiene più utile per la loro crescita e per lo sviluppo della sua disciplina, ci mancherebbe. Ma prima, magari, sarebbe bello che si riuscisse a pensare una scuola, una buona scuola, dove i ragazzi facciano cose nuove e importanti che altrove nessuno permette loro di fare.
Io ci credo. Però non basta affatto.

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