Quando sento qualcuno parlare di viaggi, anzi raccontare di aver ”fatto”, per esempio, la Namibia o il Kerala e usare il verbo “fare” come per un fatto materiale e pratico, un dovere da compiere e non come di una esperienza della mente e dell’anima, la mia prima reazione è dire, come con una sorta di consapevole snobismo: “Ma i viaggi dal ‘700 in poi – ossia dal tempo dei grand tours – non si raccontano più!”, soprattutto perché ormai tutti li fanno e li fanno allo stesso.
Pensiamo a Venezia, quella che Ippolito Nievo definiva con amore e rispetto “una gran regina di 14 secoli”; ora viene stuprata quotidianamente da mostruose navi che ne solcano il più intimo e meraviglioso tragitto, il Canal Grande e il Canale della Giudecca e ne smuovono le fondamenta su cui poggia da secoli.
Ma cos’è il viaggio?
Claudio Magris, lo scrittore triestino che forse più a fondo ha analizzato questa esperienza, nella prefazione al suo libro “L’infinito viaggiare” ne definisce molti aspetti ma soprattutto dice: “Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare come l’esistenza.
Solo con la morte cessa lo ‘Status Viatoris’ dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore. Viaggiare dunque ha a che fare con la morte… ma è anche un differire la morte, rimandarne il più possibile l’arrivo, per arrivare il più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.
Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte ad essere Nessuno, si capisce concretamente di essere nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento di sé, di dire, echeggiando Don Chisciotte: Qui io so chi sono”.