Dopo un quarto d’ora hai già visto una scena di inseguimento con i controcazzi, un tizio con il cranio sfondato da non mi ricordo quale oggetto contundente per aver detto una parola di troppo, un corriere della droga africano che crepa perché gli si sono aperti gli ovuli nello stomaco e un paio di morti sparati, tutto questo in un’Italia da strategia della tensione rediviva dove scoppiano misteriose bombe nelle piazze ma, ci assicura il tiggì, “il governo intende comunque proseguire con il piano di revisione della spesa”. Se non state già controllando gli orari dei cinema della vostra città, posso aggiungere che nel prosieguo vedremo macchine che esplodono, transessuali che uccidono malavitosi a pistolettate e un tizio bruciato vivo con un lanciafiamme da una boss della camorra (Nunzia è tra i tanti personaggi secondari che meriterebbero una serie televisiva autonoma). Però c’è anche una storia d’amore surreale e straziante, ci sono attori perfettamente in parte, c’è una tecnica convinta e pulita, notevolissima per un esordiente. E soprattutto c’è Roma. La Roma vera, quella che assiste con torpido fatalismo a qualsiasi cosa. La scena della violentissima scazzottata sugli spalti dell’Olimpico con nessuno che interviene potrebbe richiedere, se venite da Vigevano o Oristano, un po’ di sospensione di incredulità ma se vivete nell’Urbe la troverete perfettamente plausibile.
Il film inizia proprio con una panoramica sui tetti di Roma, uno dei più incredibili set cinematografici naturali del mondo. Perché, non so voi, ma io mi sarei pure rotto le palle di linitarmi a pellicole ambientate a New York o a Los Angeles, se voglio vedere gente che si spara addosso e macchine che esplodono. Io quando sono venuto a Roma sapevo che in quella città erano accadute cose straordinarie. Anna Magnani era stata falciata dai mitra mentre gridava il nome del suo Francesco, Maurizio Merli aveva inseguito i cattivi con un’utilitaria Fiat sul raccordo anulare, al 33 di via Margutta c’era lo studio di Tagliaferri e al Coppedè girava una setta di occultisti cannibali. E invece, subito dopo essermi trasferito, ho scoperto che c’erano solo fuori sede turchi che giravano film su Accorsi che ridiscute la sua identità sessuale a Garbatella, dove peraltro il Palladium aveva già chiuso e in giro non c’era più un tubo. Insomma, mi ero sentito buggerato. Almeno adesso so che c’è un supereroe che veglia su di me.
Tor Bella Monaca state of mind. Ma che te ne fai del Bronx.
Claudio Santamaria è Enzo Ceccotti, un malavitoso di mezza tacca che vive in un orrido monolocale in putrefazione a Tor Bella Monaca e trascorre le sue sordide giornate mangiando yogurt (o budini, non si capisce) e guardando film porno. Scappando dalle guardie, finisce nel Tevere e sfonda un bidone di rifiuti tossici. Dopo un colpo finito male, si becca due pallottole e casca dal ventesimo piano ma rimane solo un po’ ammaccato. Scopre quindi di aver guadagnato una forza sovrumana e di essere diventato quasi invulnerabile. Ovviamente fa quello che faremmo tutti noi con i superpoteri: non salvare l’umanità ma svellere un bancomat e portarcelo a casa. Purtroppo, rimanendo comunque un derelitto sfigato, non sa che nei bancomat c’è l’inchiostro e le banconote finiscono segnate. Glielo dice pure Ilenia Pastorelli (bravissima), che interpreta Alessia, la figlia psicopatica del compare deceduto nel colpo. Dopo la morte della madre, la ragazza ha avuto una regressione all’infanzia e ha sviluppato una monomania per la serie Jeeg Robot d’acciaio e crede nell’esistenza reale del suo universo. Un personaggio che, descritto sulla carta, sembra impossibile da strutturare e, invece, è costruito benissimo. Alessia lo esorta a utilizzare i suoi poteri per il bene dell’umanità, Enzo deve però vedersela con la gang di spacciatori guidata dallo psicopatico Zingaro (un Luca Marinelli totalmente sopra le righe – ma in maniera sorprendentemente funzionale al film – che diventa il tuo nuovo idolo mensile dopo 10 secondi), il quale nel frattempo ha il problemino di dover restituire una grossa somma a una spietata gang di napoletani. E qua c’è la meravigliosa scena della mozzarella che riassume in pochi minuti le dinamiche del conflitto di civiltà tra romani e napoletani. Vabbuò, di punti sui quali soffermarsi ce ne sarebbero troppi. Gabriele Mainetti fa corti da qualche anno (in uno, ispirato a Lupin, c’è Giallini che fa Jigen, attenzione), quindi quando gira il primo lungometraggio è come una band che fa il primo full e ci mette dentro di tutto perché aveva accumulato un sacco di idee nel frattempo.
Il più bel complimento che si può fare a Lo chiamavano Jeeg Robot è che si tratta di un film italiano di genere vero, come non ne uscivano dai tempi di Soavi. È esattamente da qui che bisogna ripartire, non da revival approssimativi alla Tulpa o dall’estetica patinata di Gomorra, che mostra una Roma edulcorata quanto e più di quella de La grande bellezza, che alla fine è la stessa compilation capitolina che fai vedere alle turiste americane. Mica le porti a Tor Bella Monaca. Peraltro – ed è forse la cosa più importante – gli scimmiottamenti tarantiniani e i citazionismi fighetti qua non hanno il minimo spazio. Mainetti è semplicemente fissato con quella roba di suo, è cresciuto con i cartoni animati giapponesi come me, quindi usa quell’immaginario in maniera naturalissima e convincente proprio perché sincera, come può fare uno Zerocalcare. Solo che Rebibbia alla fine non è male, mentre Tor Bella Monaca è perfetta per ambientarci una sparatoria. Che ce ne facciamo del Bronx e di East LA quando abbiamo Torre Maura, Corviale e San Basilio, che sono molto più scenografici. Noi italiani siamo l’ultimo popolo che può rassegnarsi ai bassi livelli in campo artistico. E poi abbiamo tante cose da raccontare di questi tempi. Per esempio, mo’ Fuocoammare ha vinto l’Orso d’oro a Berlino e mi fa molto piacere. Però su Lampedusa e gli immigrati (credibilissimi finalmente quelli presenti nel film), per riprendere il discorso fatto da Roberto a proposito di Buongiorno Papà e per citare un grande tema a caso della modernità, non ci dovremmo fare solo il documentario. Dovremmo farci il film poliziesco violento, il film di inchiesta politico, la commedia nera politicamente scorretta, il film drammatico con la storia d’amore e così via. O mi sbaglio.
Lo chiamavano Jeeg Robot è un film importante che va sostenuto per gli stessi motivi per il quale andava sostenuto Il racconto dei racconti di Garrone. Perché dal cinema italiano non voglio Accorsi che ridiscute la sua identità sessuale a Garbatella ma re che uccidono draghi e gangster pazzi che si massacrano a Tor Bella Monaca. Altrimenti è finita. (Ciccio Russo)