Solo una riflessione. Sui simboli, sulle reazioni di alcuni gruppi sociali, per arrivare a interrogarsi sulle radici di un concetto. In questi giorni, a seguito dell’eccidio che ha avuto come teatro Charlie Hebdo, storica rivista satirica parigina, e degli ulteriori sanguinosi eventi, abbiamo visto proliferare una quantità di slogan e hashtag in rete. Altri, certamente, ancora seguiranno. Proviamo a fare il punto della situazione.
Je suis Charlie: Slogan coniato nelle ore successive alla strage presso la redazione della rivista Charlie Hebdo, volto a esprimere solidarietà alle vittime e soprattutto a chiunque svolga un ruolo di informazione anche attraverso la satira. Lo slogan implica la difesa della libertà di stampa e di espressione senza se e senza ma, abbattendo le barriere geografiche e culturali. Almeno così si intendeva inizialmente…Je suis Ahmed: Slogan nato come risposta al primo e che in qualche modo vi si integra. Si ricorda Ahmed Merabet, poliziotto musulmano in servizio davanti alla redazione della rivista e ucciso dal commando che ha falcidiato quanti lavoravano nel giornale. Il messaggio espresso è: “Non sono Charlie. Charlie Hebdo metteva in ridicolo la mia fede e la mia cultura. Io sono morto per difendere il suo diritto di farlo”. L’hashtag è stato rilanciato dallo scrittore libanese Dyab Abou Jahja e inserisce un distinguo culturale e identitario (per quanto legittimo) nello slogan di partenza, con echi evidenti alla citazione del falso Voltaire (“Non sono d’accordo con ciò che dici, ma morirei perché tu possa avere la libertà di esprimerti”). Legittimo e rispettabile, ma leggermente impelosito dalla vena campanilista, in quanto – ricordiamo – Charlie Hebdo era noto anche per pesanti dileggi della cultura e delle religioni occidentali.Je suis Charlie et Ahmed: Slogan ibrido che cerca di sintetizzare due visioni culturali diverse (per quanto convergenti di fronte alla violenza cieca della strage). La sensazione che suscita è inclusiva per alcuni, ambigua per altri. I simboli raramente mettono tutti d’accordo, anche quando vogliono affermare pace e solidarietà.Je ne suis pas Charlie: Slogan che si contrappone al primo della lista, prodotto da certi ambienti cattolici. La spiegazione più diffusa è che Charlie Hebdo era comunque una rivista volgare, offensiva per tutte le religioni, e pertanto non deve suscitare risposte solidali. Si prega per i morti e per le loro famiglie (sic!), disapprovando comunque il loro operato da vivi. Un distinguo che pone l’accento più sulle differenze che sui punti nevralgici della solidarietà, che dovrebbero essere la libertà di espressione e la pacifica convivenza. Je ne suis pas Charlie… Je suis… Osvaldo Marotta (o Pinuccio Greco… o tanti altri)… non amo il gregge: Slogan emergente sui Social Network, e facente parte dei meccanismi indotti dal suddetto. Una frase che non esprime una posizione definita (per quanto il soggetto scrivente potrebbe anche manifestarla), ma sottolinea il bisogno di distinguersi. Slogan del bastian contrario e della partecipazione verbale coatta suggerita dall’uso del social che spinge a cogliere occasioni preziose per tacere. Fondamentalmente inutile, questo slogan è parte integrante della palestra narcisista dei social come la cyclette in un centro di fitness. Per non omologarsi sarebbe sufficiente il silenzio. Invece no. Tu es… qui tu es! Suona un po’ come: non faccio parte di un gregge, ma di un club esclusivo: il mio. Concludendo: la ricerca di un simbolo, una bandiera, che con le migliori intenzioni vuole raccogliere sotto di sé animi pacifici e liberali, scatena automaticamente una guerra degli slogan (o nella migliore delle ipotesi un proliferare pletorico degli stessi) e fa emergere una serie di empatie culturali divergenti, a volte di pochissimo, ma comunque emotivamente motivate a distinguersi. Tutto questo spinge a riflettere sulla contraddittorietà ed estrema varietà del sentire non soltanto geopolitico, ma culturale nella sua accezione più ampia. Trovare il dritto e il torto nelle motivazioni di ogni gruppo è tutt’altro che semplice. L’unica cosa chiara è che la solidarietà, anche quando motivata da eventi universalmente riconosciuti come tragici, è un valore molto difficile da mettere in pratica e mantenere coerente.