Sena esce di casa con abbondante ritardo e finisce poi per scegliere il percorso più lungo.
Non vuole essere lei ad arrivare per prima.
Nei suoi passi tutta la calma possibile e nella sua testa numeri per non dover pensare ad altro, per scacciare quello stadio di nervosismo ben incrostato al suo modo di vivere, che fedelmente l’accompagna in ogni occasione.
Il luogo dell’incontro è Saint-Michel–Notre-Dame, la fermata della metro, ma Sena non ha ancora capito il punto preciso in cui ritroverà Paolo, se sarà vicino ai distributori dei ticket, se lo riconoscerà appoggiato sulla struttura in ferro battuto verde che circonda l’ingresso della metropolitana, se saprà dirgli subito qualche parola o se, per riempire il silenzio, sarà costretta a pescare tra le sue sbrigative parole sbagliate. Un sospiro e quella vocina sottile che sta dentro.
Ma che te ne frega, sono passati anni.
Sena vorrebbe dirlo anche a lui mentre se lo vede comparire di fronte, proprio dopo aver disceso l’intera gradinata di scalini, sprofondando lì dove arrivano appena gli ultimi raggi di sole e il vento è freddo e tira forte come ad alta quota.
Paolo, con addosso quel cappotto verde scuro e lungo.
No, non ha mai saputo come vestirsi decentemente.
Paolo con quell’espressione seria e troppo forzata, il muso imbronciato messo su apposta, mentre lei avvicina il suo viso al suo, le guance in posizione parallela, in una distanza non troppo minima, finché lui si appoggia a Sena, su quel punto ben individuato del viso che non vuol dire niente e lascia due baci volare nell’aria, neanche quelli dicono nulla.
Non sono veri baci, è un modo che gli italiani usano per salutarsi cortesemente, guancia contro guancia. Un abbraccio varrebbe molto di più, ma lui non si scompone e Sena tanto meno.
Due tronchi irrigiditi dalla commozione che si scrutano per contare le differenze col tempo, curiosi. «Ti vesti sempre peggio…» dice lei, in una risatina, colpendolo con un pugno potente sul braccio.
Lui finge un tremendo dolore, ma ancora non sorride.
«Questo caos già mi sta dando il panico. Dove dobbiamo andare?» ha un’espressione disgustata sul volto che lo rende estremamente buffo.
«Andiamo da me» Sena lo guarda in attesa della reazione temuta, si affretta a rendere il suo volto più inespressivo possibile, ma ci riesce male: c’è un imbarazzo misto a delusione, una miscela che si affaccia dallo sguardo di Sena mentre si accorge che Paolo la sta fissando confuso, poi accigliato, poi finalmente irritato.
Ecco. L’evoluzione che si aspettava, se l’era immaginata così, nel dettaglio, anche tra i numeri che ingolfavano la sua mente mentre percorreva Rue Saint André des Arts per raggiungere il luogo dell’appuntamento, che appuntamento proprio non era.
Perché quelli non erano i patti, Sena avrebbe dovuto prenotare per Paolo una stanza in qualche albergo nella zona degli Champs-Élysées. Lui si sarebbe fermato a Parigi solo qualche giorno per lavoro, non sapeva nulla della città e non parlava una parola di francese, l’aveva contattata per chiederle qualche indicazione, ma lei aveva insistito per occuparsi di tutto.
«Casa mia è vicina al posto in cui devi andare e ho una stanza apposta per gli ospiti, non ti disturberà nessuno, mi sembrava sciocco mandarti in albergo…» Mentre parla, Sena si ritrova con i palmi delle mani distesi nell’aria, come a voler sgomberare ogni dubbio sulle sue più buone intenzioni.
Paolo però sembra rimasto congelato, lì dove si sono appena rivisti, sotto quei gradini che scendono nell’ombra della metropolitana, con il vento che spazza via i capelli e spinge i loro corpi che restano inchiodati a terra.
È vero che nelle spiegazioni di Sena non c’è proprio tutto, restano parole che lei non direbbe neanche sotto tortura, perché l’intreccio delle loro due storie non prevede sentimenti rivelati, neanche quelli più semplici e innocenti, che non farebbero mai male.
Paolo le è mancato. Ecco qui. Punto e basta.
Molto spesso ha pensato a lui in questi anni, con quella nostalgia sottile che si ha per i momenti trascorsi che non si possono più rivivere se non in ricordi sfocati. Paolo c’è sempre in quei ricordi, nei bisticci infantili e in quelle vecchie foto in cui gli occhi sembrano più accesi, come di una vitalità donata, senza saperlo, per un tempo stabilito e breve.
Sena ora fissa Paolo che le sta accanto, bloccato sulle sue gambe, con quell’espressione irritata di chi è stato appena gabbato. Ancora per pochi attimi resta a crogiolarsi nella probabilità che il suo comportamento possa davvero essere stato frainteso, poi le viene il sospetto di aver saltato qualche passaggio. Esamina bene gli occhi di Paolo per capire dove sia il problema.
Lui inclina un poco il capo e il suo sguardo sfugge subito verso i passanti.
L’attenzione di Sena, allora, cade di nuovo su quell’orribile cappotto verde e poi sulla camicia candida che esce dalla manica e fa intravedere appena la carnagione olivastra del suo polso. La risposta è tutta nella sua mano sinistra, su quell’anellino dorato che Paolo porta all’anulare.
Come te ne sei dimenticata?
Come una stupida.
Ma mica crederà che voglio provarci?
«Paolo, guarda, spero che tu non mi abbia fraintesa: volevo solo essere gentile, se vuoi risolviamo in un attimo, so già dove chiamare…» mortificata, Sena lo fissa per pochi attimi appena e poi il suo sguardo si rifugia altrove, scende fin sulla punta delle scarpe. Una sensazione bruciante se ne sta bloccata in mezzo alla gola di Sena… Infiamma.
«Ti guardi ancora le punte dei piedi?» Sena arrossisce, Paolo anche. È come se tutto tornasse, forzando ogni scadenza temporale.
«Allora?» fa lui con quell’aria scocciata tirata fuori apposta dal suo repertorio «vogliamo andare o facciamo notte qui dentro? Abiti lontano?»
Un classico. Il suo modo di fare scorbutico scagliato con l’inclinazione giusta per spazientirmi.
«Se non la pianti di rompere ti lascio dormire sotto un ponte, hanno ragione a dire che gli italiani sono tutti cafoni. No?»
«Anche tu sei italiana» ride.
«Praticamente non lo sono più.»
Paolo sta zitto, si morde le labbra e incrocia le braccia, guarda avanti, accelerando la camminata. Tra i suoi modi di fare ce ne sono pochi davvero autentici, indossa sempre le solite maschere. Per Sena è semplice interpretare ogni espressione, se non fosse per l’insicurezza che piomba addosso tutte le volte in cui si tratta delle persone a cui teniamo, quella fottutissima paura di sbagliare che ci fa rimanere, nel dubbio, immobili.
Loro, poi, è tutta la vita che giocano a prendere strade che seguano direzioni opposte, ma alla fine, puntualmente, prendono la via sbagliata e si ritrovano uno difronte all’altro.
«Dove corri, se non sai dove andare, me lo spieghi?»
Quando arrivano al portone d’ingresso inizia a piovere. L’aria si è raffreddata. Sena saltella su se stessa per sfuggire ai brividi, infila una mano nella borsa alla ricerca delle chiavi.
«Che fai? Ti esce la pipì?»
Ridono, poi Sena finalmente trova le chiavi. Mentre le infila nella serratura ride ancora e scuote la testa.
Non è cambiato per niente.
Il portiere li segue mentre percorrono l’ingresso del palazzo e si avvicinano all’ascensore. Paolo gli fa un cenno con la mano e lo saluta in italiano. Il portiere lo guarda ma non risponde.
«È sordo?»
«No, è francese.»
…
Nei piccoli paesi di campagna, in cui c’è molta più campagna che paesi, d’estate i ragazzi si divertono inventando spedizioni tra le cascine diroccate disseminate tra le colline di girasoli e di grano battuto. Si muovono in flotte di motorini, con il suono del loro passaggio che rimbomba rompendo il silenzio sacro di quella natura abituata a essere lasciata in pace.
L’alternativa consiste nei tuffi spericolati alla Gola del Diavolo, che annovera leggendarie vittime dalle storie sconosciute. Anche Sena si è buttata, una volta sola, giù da quelle rocce che si affacciano sul punto in cui il torrente raggiunge la maggiore profondità, prendendo bene la mira da quei quattro metri di altezza, cercando di non precipitare contro qualche roccia sempre leggendariamente ben nascosta dall’acqua.
Questa volta però la destinazione è San Pellegrino, frazione di una frazione di una frazione di un paese di provincia che è quello in cui vivono anche Sena e Paolo.
I più coraggiosi sono quelli ad avventurarsi per primi tra le mura pericolanti, ispezionando il posto e poi facendo segno ai compagni di entrare.
«Vai tu… Se hai coraggio…» Sena fissa Paolo con un sorrisetto sarcastico stampato sul volto, il guanto di sfida è lanciato.
«Non ci penso neanche…»
«Lo sapevo. Sei solo un maschio che ha paura…» mentre lo dice, Sena accompagna le parole con numerose smorfie esibite sotto il naso di Paolo. Entrambi scoppiano in una fragorosa risata.
«Dai, muoviti… Se sei tanto coraggiosa… Vai tu per prima…» le espressioni sono praticamente simmetriche, ma Sena sente di non potersi proprio tirare indietro. Si sgancia il casco del motorino e in un moto d’impeto lo lancia a Paolo che lo acchiappa al volo.
Con finto passo deciso, Sena si allontana dal gruppo e scavalca in un salto il rovo di spine che le ostacola l’ingresso, superando il grande portone di legno con le ante spalancate e distrutte. La stanza è deserta, Sena la attraversa silenziosamente, meravigliandosi di come l’edera rampicante si sia insinuata tra gli spazi lasciati liberi dai vetri rotti della finestra, tappezzando parte del pavimento.
Due pareti sono completamente libere, le mura incrostate dovevano essere state dipinte di bianco, una volta. La terza ospita un grande camino riempito di sporcizia. Il posto è tranquillo e lei anche. Decide di percorrere un piccolo corridoio che le si apre di lato e su cui sembrano affacciarsi altre stanze. Qui l’intonaco si è salvato dal tempo, ma non dai pennarelli dei ragazzi. Date, frasi, cancellature, frecce che costruiscono dialoghi tra chi è venuto prima e dopo, molti cuori e poi insulti osceni. All’improvviso, voltandosi, Sena si accorge che qualcosa, in un moto rapidissimo, le sta piombando addosso. La velocità di quell’attimo è tale da non permetterle di scappare, la paura la blocca e la fa urlare. Si rannicchia a terra con le braccia che le proteggono la testa, ma stranamente nulla arriva a colpirla.
«Che succede? Donnavventura si è fatta spaventare da un barbagianni?»
Paolo le compare davanti, piegato in due dalle risate, il casco di Sena ancora tra le mani, con un’espressione beffarda stampata in faccia… che gli sarebbe costata cara.
…
È ancora presto. Sena è già sveglia nella sua cucina, in piedi vicino alla finestra che si affaccia su una mattina grigia di Parigi.
Questa città è ancora più bella nel suo torpore, come quando scopri qualcuno che ami ancora addormentato, fragile e indifeso sotto il tuo sguardo.
Si prepara un caffè senza accendere la luce, solo qualche raggio ancora freddo filtra dal cielo grigio scarico di pioggia.
La testa è pesante, i movimenti silenziosi ma rapidi, guidati da una trepidazione che, con tutti gli sforzi, Sena non riesce a contenere.
Mentre Paolo dorme, lei si sente ancora al riparo, è più facile ripetersi che le loro vite hanno fatto il giusto corso. Vicino a lui, invece, tutto si confonde e si mischia.
Non può credere che la nostalgia provata per lui sia trascinata da un sentimento diverso dall’affetto, ma quello che la spaventa è che il loro rapporto si radichi su sentimenti stonati che nulla hanno a che vedere con l’amore o l’amicizia.
Col tempo le loro scaramucce erano diventate coltelli affilati per ferire l’altro e vedere poi la sua reazione. Più le ferite si facevano profonde e più ci si aspettava che l’altro decidesse di abbandonare il gioco. Per nessuno dei due, però, era mai abbastanza e il legame si stringeva ancora di più, in una stretta d’affetto cieco.
Qualunque cosa tu sia capace di farmi, io resto.
Un’affinità si tende e si fortifica insieme, senza conoscere l’esistenza di un punto di rottura, che doveva esserci, ma chissà dove. Sena e Paolo erano due avversari bendati che giocavano con i propri sentimenti senza conoscere quelli dell’altro. Tutto il loro attaccamento si manifestava nel divertimento subdolo e pericoloso del loro schernirsi, nello loro parole non dette, rimaste appese solo agli sguardi, per il tempo sufficiente a farsi capire, nell’avvicinarsi e riallontanarsi come schegge impazzite, sfiorandosi appena, senza mai un contatto che fosse davvero pieno e appagante.
Poi erano cresciuti, Sena era partita per Bruxelles e si era diplomata al Conservatorio Reale, con tutto l’orgoglio di chi, avendo in tasca solo il proprio talento e un baule zeppo di sacrifici, riesce a realizzare i propri sogni. Paolo, invece, era rimasto, tra i volumi di legge, pesanti come mattoni, aveva potenziato la sua indole pratica ed era diventato un avvocato.
Dal quel giorno in cui Sena era partita senza salutarlo non si erano più rivisti.
«Quando sei partita l’ho saputo da altri, perché non sei venuta a salutarmi?»
Paolo è sulla soglia della porticina minuscola che dà sulla cucina. Come se non avesse davvero pronunciato quelle parole si versa una tazza di caffè e si siede al tavolo, con la schiena ricurva e lo sguardo riverso su quel liquido nero che ancora sprigiona aroma nella stanza.
Alla fine alza gli occhi e Sena capisce che deve rispondere.
«Credevo che così non ci saremmo salutati per sempre, volevo costringerti a scrivermi e poi volevo provassi nostalgia di me.»
Paolo si fa serio, così come Sena non lo ha mai visto.
«Per questo sei andata a Bruxelles?»
«No. Tu non c’entri. Io volevo andarmene e basta.»
Non c’è motivo di mentire.
Gli occhi di Paolo disegnano due fessure, c’è rabbia in ogni minimo movimento che sfugge al suo controllo. Davanti a quello sguardo Sena si sente piccola, povera di spiegazioni.
Quando Paolo parla, il punto di rottura si scopre, il legame resta nudo sotto i loro occhi.
«Non era nostalgia… Era mancanza… Era dolore. Per questo non ti ho scritto.»
Visibile. Tutto il loro attaccamento se ne stava scoperto e vulnerabile in mezzo alle loro parole, infilato tra i loro sguardi che saettavano dentro quella piccola stanza progressivamente illuminata dal giorno.
di ALESSIA ROSATI
All rights reserved