Racconti d’autore – vento freddo nella metro (parte ii)

Creato il 10 marzo 2014 da Thefreak @TheFreak_ITA

«Non era nostalgia… Era mancanza… Era dolore. Per questo non ti ho scritto.»

Parole a galleggiare nell’aria, a riempie lo spazio stretto racchiuso tra le quattro mura della cucina.

Sena sente di dover dare altre spiegazioni, ma Paolo ha appena finito di bere il suo caffè, si è alzato in piedi infilandosi il cappotto.

«Vado.»

Il tempo della verità è già finito?

Sena vorrebbe fermarlo, ribattere che non può andarsene così, ma lui risponderebbe che è venuto a Parigi non per lei, ma per lavoro. Sena vorrebbe chiedergli quando potranno riaprire questo discorso, se mai lo faranno, se deve aspettarlo per pranzo o per cena.

Se può aspettarlo. Per quanto resta.

Ma il tempo della verità è già finito e Sena guarda Paolo scomparire dietro la porta, poi si volta, appoggia la fronte al vetro della finestra, che si appanna in un attimo, ascolta il rumore del portone principale chiudersi. E resta, nella cucina dove le parole ancora galleggiano, dopo troppi anni.

La piazza è piena di gente. C’è la musica di una fisarmonica e di una chitarra acustica e il sole che scompare lentamente dietro l’orizzonte increspato dalle colline. È il primo giorno dell’estate e si festeggia per questo. Sena percorre la strada principale per arrivare al centro del paese. Nella piazza stanno coppie di anziani che ballano il tango, in quel modo appassionato, che sembra restare nascosto per tutto il tempo del loro vivere quotidiano ed affiorare poi all’improvviso, da sotto la pelle. Trasformati, in quei movimenti repentini, scanditi dal ritmo, e nei loro sguardi inchiodati sul compagno che sta di fronte, come se nelle loro vene iniziasse a scorrere un sangue diverso.

Magie della gente comune.

Sena se ne sta nel suo vestito a fiori, nell’andatura goffa e dondolante, tiene lo sguardo dritto davanti a sé, gli occhi a catturare quel mondo che le sta di fronte.

Una donna non troppo giovane canta in jeans dall’alto dei suoi tacchi vertiginosi sulle note di quella chitarra e di quella fisarmonica, tiene una mano sul microfono e l’altra distesa nell’aria, con il palmo aperto a cercare qualcosa, un sogno che inizia e finisce dentro i suoi acuti.

“Bésame, bésame mucho como si fuera esta noche la última vez…”

È una musica che pare triste, Sena la ascolta, mentre continua a camminare, e una nostalgia sottile si diffonde nell’aria, pervade tutto, come la salsedine che sporca i capelli e confonde ogni odore. Forse è la sua. La nostalgia che Sena si porta dietro, mimetizzata tra i fiori del suo vestito.

I ragazzi se ne stanno in disparte, ai lati della scalinata della chiesa. Sembrano avvolti nella bolla dei loro scherzi, delle risate. Solo la musica arriva, si sente forte e non è facile sovrastarla.

“Bésame, bésame mucho que tengo miedo a perderte, perderte después…”

Sena pensa a sua madre, al modo in cui ama canticchiare questa canzone durante le faccende di casa, a come il suo corpo ondeggi sinuosamente mentre passa lo straccio e pensa di essere sola.

Poi vede Paolo.

«Che hai?» chiede lui.

«Niente. Perché?»

«No, così, c’hai una faccia strana…»

Vado a Bruxelles, ho superato la selezione, parto tra tre giorni. Mi mancherà questo posto.

Mi mancherai tu.

Sena vorrebbe dirglielo, ma ha il timore che Paolo la lascerebbe lì, sola, su quei gradini in pietra. Per questo, lascia che le parole sincere sprofondino, ripescando quelle più giuste, quelle più inutili, che si rincorrono, finché la notte non diventa fonda, fino al buio illuminato solo dall’arancione dei lampioni che se ne stanno, senza simmetria, sparsi qua e là ai margini della piazza.
Anche Sena scherza, ride, si dimentica del futuro che ha scelto solo per passione e in cambio le chiede di rinunciare al resto. Lei che nella sua vita sa solo suonare l’oboe e non vuole fare altro. Paolo non capirebbe. Dovrebbe stargli a spiegare che la pietra di questo paese le va troppo stretta, che conosce ormai a memoria dove sbuca ogni vicolo, che ama questo posto e nello stesso tempo non sopporta il pensiero di dover morire lì dove è anche nata. Disprezza quelli lì, che finita la musica smetteranno di ballare e torneranno ai loro valori riciclati, a quell’attaccamento cieco e orgoglioso verso la loro terra, alla diffidenza per tutto quello che è diverso e che lì non vuole restare.

Paolo e Sena si guardano di continuo, tra le chiacchiere degli altri, nella silenziosa smania di restare da soli.

Per fare che, poi? Per dare tempo all’altro di parlare.

Non se ne vanno da un’altra parte, nessuno chiede all’altro se gli va di fare un giro, figuriamoci di ballare. Aspettano, tutti e due, che le ore inizino a tardare e che i ragazzi piano piano rientrino.

Elena abita proprio attaccata alla chiesa e sembra non demordere. Ha una cotta per Paolo. Gli sorride, gli si siede accanto, gli si avvicina impercettibilmente, come a dovergli rubare qualcosa, senza che lui se ne accorga. Paolo è in imbarazzo, Sena gli lancia sguardi maliziosi e qualche risatina. Tutto il divertimento finisce quando la madre di Elena prende ad urlare dalla finestra ordinandole di rientrare.

Paolo si fa più vicino a Sena.

Ora è lui che deve rubare qualcosa?

«Giovedì facciamo una partita di calcetto, ci vieni a vederla?»

Giovedì parto.

«Boh… Può darsi…»

Paolo fa un sorriso soddisfatto e poi prova a parlare.

«Mi sembri triste. Lo sei?»

La risposta di Sena è un mugugno sommesso. È un sì che le esce per sbaglio ed ora è obbligata a spiegare.

«Anche io ultimamente sono più pensieroso… È perché non so che fare della mia vita. Ora che abbiamo finito di studiare, chissà cosa succederà. I miei vogliono che studi legge.»

«Non ti piace?»

«No, è che non ci ho mai pensato, non sono come te… Tu pensi sempre a tutto, sai sempre prima tutto. Tu sai già che ti piace la musica e vuoi suonare. Ti iscriverai al conservatorio?»

«Sì…» Sena abbassa la testa, evita di guardarsi le punte dei piedi, perché Paolo capirebbe. Raccoglie il suo sguardo sulle dita rapide del musicista che corrono come impazzite sui tasti della fisarmonica. Corrono e non si stancano mai.

«Sai che c’è… Quello a cui ho sempre pensato è che voglio una famiglia, voglio trovare una persona che mi voglia bene e costruirci qualcosa insieme…»

Paolo limpido, nella sua sincerità appena scoperta, con lo sguardo pronto a nascondersi.

Sena immobile che non riesce a guardarlo, congelata in quel senso di colpa che Paolo scambia per imbarazzo.

Il braccio di Paolo intorno al collo di Sena, per condurre il suo corpo nella vicinanza intima del buio. Per pochi attimi soli.

«Mi dai un bacio?»

«Devo andare a casa. È tardi.»

Nella piazza è rimasta solo una coppia a ballare: sono due giovani che Sena e Paolo non hanno mai visto. Forse turisti americani, ce ne sono spesso da queste parti d’estate.

I musicisti vogliono sbaraccare, ma loro implorano un ultimo ballo.

Quando Sena ha percorso già quasi metà della piazza il chitarrista attacca improvvisando svogliatamente qualcosa.

I due tipi si perdono in giravolte grottesche, forse sono ubriachi. Sena li guarda e sorride. Quando si volta Paolo è già sparito. Giovedì non potrà andare a vederlo alla partita di calcetto.

Paolo se ne sta seduto sui gradini della Chiesa di Saint-Merri in Place Igor Stravinsky.

Sena gli si siede accanto, silenziosamente.

«C’è anche la tua chiave di violino… »Paolo indica con l’indice la scultura che si erge al centro della fontana, animata da altre figure stravaganti.

«Sì, ma è in buona compagnia.»

«Che porti in quella valigetta?»

«Il mio oboe, il primo che ho suonato… Te lo ricordi?»

«Ho una memoria corta io, e poi mi sembrava che fosse più lungo…»

Sena ride. Paolo mette il broncio.

«Ho preso tutte le mie cose, ti ringrazio per l’ospitalità… Tra poco vado, altrimenti perdo il treno…»

Sono parole cordiali, ma il tono con cui Paolo le pronuncia taglia nel profondo, deliberatamente, gli ultimi fili che li legano. Sena lo capisce, è esperta di tonalità. Vorrebbe fare qualcosa per rimediare, ma questo vorrebbe dire fare ammissioni difficili.

«Eravamo sui gradini di un’altra chiesa, quando ti ho visto l’ultima volta, prima di partire. Allora eri tu a sapere già cosa volere… Ora ti guardo e vedo un uomo realizzato, so che hai una bella famiglia, un posto in cui tornare la sera per sentirti a casa. Ti invidio. Io ho viaggiato per l’Europa con questa valigetta, come la chiami tu, come unica vera compagna e non mi sento a casa da nessuna parte. Ho falciato le mie radici, con una smania che ora non mi so spiegare. Non rimpiango la strada che ho preso ma il modo in cui mi sono lasciata tutto alle spalle, rinnegando ogni cosa che era di me. Così anche tu, un pezzo di quel mondo che ho voluto abbandonare.»

Sena si aspetta nient’altro che silenzio. Paolo, invece, non si scompone e le parla.

«Hai fatto bene, ho sempre pensato che tu fossi speciale, per alcuni eri perfino stramba, ma a me piacevi. Lo sapevo, in fondo, che non ti sarebbe bastata la vita che desideravo per me.»

«Me ne pento. Ora sono meno felice di te.»

«Non devi, hai inseguito i tuoi sogni.»

«Ma ora sono sola.»

«Saresti stata infelice comunque, rinunciando alla tua musica, anche con me accanto. Tu sei così, anche il modo in cui pensi di essere diversa e migliore dalla gente semplice in mezzo a cui sei nata, è un errore di cui non devi dispiacerti troppo… Ti ha portato fin qui. Sei una musicista bravissima, hai aperto una scuola, hai suonato nelle migliori orchestre.»

Un altro uomo. Un altro Paolo.

Sena non si sarebbe aspettata quelle parole.

Volge uno sguardo al cielo grigio, il vento ha iniziato a soffiare forte, preparando l’aria alla pioggia.

Poi Sena apre la valigetta. Estrae la campana del suo vecchio oboe d’ebano.

«Tieni. È un regalo importante.»

«Non avevo dubbi.»

Si sorridono, gli sguardi sono distesi, il cuore è in pace.

«Mi accompagni fino alla metro?» è una domanda finta, entrambi lo sanno.

«No, c’è troppo vento, preferisco tornare a casa.»

Di Alessia Rosati

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