La staffetta di Deborah Epifani (III parte)
Sera. Ore 17.41
Eroalla fine della mulattiera, nella semioscurità, senza più fiato, senza calorein corpo. Sugli occhi e sui pensieri stava calando il torpore della morte. Erarimasto solo questo.Non ti addormentare, restasveglia...Principiodi congelamento. Così si chiamava, anche senza neve.Resta sveglia, Emma. Me lo ripetevo come lesuppliche della domenica insistendo sul mio nome, quasi che il solo rammentarlofosse l’unica cosa che mi ancorava alla vita. Ma chi stessi supplicando, non losapevo. O non lo ricordavo.Piccoli.I pensieri si erano fatti piccoli, inconsistenti, sfilacciati.Il corpoera un’appendice estranea.Ilfreddo non c’era più.Congelamento. Resta sveglia.Emma.Unlatrato acuto, lancinante, mi schiaffeggiò i sensi, il grido di una stregadentro il corpo di un cane fatto di vermi, presunzione e ferro. All’improvvisomi accorsi che ero in piedi davanti alla porta della Ca’ del Töni. Respiravo pianissimo, o forse non respiravo affatto.La mano destra era aperta, tesa in avanti, le dita rigide, immobili.Devo solo aprire la porta. Maper chi, poi? Ah... ora ricordo: per zia Caterina, per il paese, per la valle,per la libertà di tutti noi, per una causa in cui ci hanno buttati, per le vitedi quelle giovani anime piene di pulci che hanno dormito nel fienile senzatogliersi le scarpe e che potrebbero essere mio fratello, mio marito, mioamico, mia speranza di un figlio. La promessa di un futuro libero sulle nostreterre. Ma lo voglio davvero? Se entro qui dentro, potrei non uscirne. Se neuscirò, non sarò più la stessa.Inspiegabilmente,quella consapevolezza appariva più terribile di una morte straziante tra lefauci di un Segugio.Unaltro ululato, molto più vicino e stridulo, riempì l’aria gelata.Fuistinto, nient’altro: le domande svanirono. Allungai il braccio a coprire ladistanza tra la mia mano intirizzita e la porta. Poi gettai il peso in avanti,entrai nell’inferno con una piroetta così agile da apparire assurda, richiusila porta e abbassai il chiavistello con un tonfo.Non mivoltai.L’abitantedella malga mi fissava dal buio, ne ero cosciente.Ma erosfinita e caddi a terra.
Notte. Ore 00.17
Quandoti addormenti al gelo, sei più vicina a Dio. E quando ti risvegli all’inferno?Nonvolevo sollevare le palpebre. Sapevo perfettamente cosa avrei visto. Sapevo cosa c’era accanto a me. Ne avevosentito i racconti così tante volte, da piccola! Nella Ca’ del Töni non c’era nessun Töni. C’era il Diaul, come dicevano i vecchi: il Diavolo. Questa era la leggenda.Se riuscivi ad arrampicarti fino al suo nido, potevi chiedere qualunque cosa elui l’avrebbe esaudita. Qualunque. Ma poi c’era un prezzo da pagare; di solitoil Diavolo ti portava via la cosa più cara che avevi, a volte era clemente e tilasciava vivere, altre volte era proprio quella la punizione. In ogni caso noneri mai tu a stabilire il prezzo.Cosaavrebbe portato via, a me? Io conoscevo la mia richiesta. Ma la sua?Se tanto Emma non esisterà più,non esiste già da oraNon fuquello a farmi aprire gli occhi. La curiosità umana ha del grottesco: la siasseconda anche quando si è consapevoli che la scoperta sarà terribile. Non sipuò rimanere con mezza certezza, se si ha la possibilità di renderla completa.Sgranaigli occhi. Ero sdraiata sulla schiena, sentivo una sorta di materasso sotto dime e, sopra, una coperta ruvida. La luce rossastra che avevo scorto attraversole palpebre abbassate proveniva dalle fiamme, ma non ero in nessun girone deidannati: un fuoco rustico, allegro, quasi incoraggiante, ardeva in un buco alcentro della malga. Il Diavolo lo aveva acceso per scaldarmi.Il Diaul? No, non era possibile,naturalmente. E poi zia Caterina diceva che erano solo storie, che non c’eranessun Diavolo, nella Ca’ del Töni.Lei ci era stata. Ma le sue erano sempre state mezze verità.«Menosai e meglio è» mi diceva nel suo tono pratico.Allorachi...Mitirai su a sedere. In quel momento lo vidi.Era ungiovane. Seduto sui talloni a qualche passo di distanza, mi guardava con occhidiffidenti, grandi, sbarrati, così chiari che le fiamme conferivano loroinnaturali sfumature rossastre. I capelli erano lunghi sulle orecchie e sullafronte, di un biondo dorato, aggrovigliati in un taglio spartano. Aveva lamascella contratta in un’espressione dura, di sfida e angoscia insieme; forseper il freddo, forse per la tensione, le labbra screpolate erano ridotte aun’effimera linea bluastra. Il resto cozzava con il volto che non aveva nulladi familiare e amichevole: portava abiti come un contadino qualsiasi dellavalle, scarponi chiodati compresi, anche se il maglione di lana era più grandedi una misura e i pantaloni mostravano un numero esagerato di toppe. Era magro,presumibilmente alto e potente, sotto quegli abiti ridicoli. Poteva il Diavoloapparire così umano?Era ungiovane. Per quanto strano, era solo un giovane poco più grande di me. Tuttoqui, il segreto di zia Caterina? Niente corna sulla fronte, niente zampe dicapra, niente volto nerastro e spigoloso. O forse mi sbagliavo?I vecchi dicono che ha molteforme. «Sei...»la voce mi morì in gola, soffocata dall’inconcludenza che avrebbe assuntoqualsiasi domanda.Lui nonsi mosse.Riprovai.«Tu... ti chiami Toni? Questa casa è tua?»Non cifu nessuna variazione di fondo nella sua espressione tesa o nel modo in cui sene stava accovacciato a distanza. Per un breve momento, guardando quegli occhispalancati, mi sentii in un’assurda posizione di superiorità.«Emma»bisbigliai, indicandomi.I suoiocchi celesti mi ipnotizzavano. Ma non avevo tempo per comprendere. Chiunquefosse, zia Caterina mi aveva mandato da lui per salvare il paese. E se non ilmio, almeno quello più vicino.«Devochiederti... vorrei chiedere, se posso, un favore». La mia voce suonò debole eriluttante, e la richiesta, formulata come avrebbe fatto una vecchiasuperstiziosa, vuota e stupida.Restammoa fissarci, immobili, finché il giovane abbassò uno sguardo avido sullo zaino,riposto intatto alla mia destra. Il Diaulnon l’aveva toccato, se non per togliermelo dalle spalle.Allungaile dita sul cordino della tasca davanti. Tremando, con le nocche e le unghieviola dai geloni, slegai il nodo, scansai la coperta arrotolata e, riportandogli occhi sul Diaul, aprii lo zainoin modo che potesse guardarvi dentro.Luiinvece continuò a fissarmi per un tempo lunghissimo. Poi mi strappò la saccadalle dita con uno scatto tanto repentino da farmi cacciare un urlo e arretrarefino al muro di pietra.Il Diaul capovolse lo zaino e tutto il suocontenuto si riversò sul pavimento: due paia di calzettoni, un libro, unvecchio maglione del nonno e, avvolto in esso, scatolette. Scatole di lattatintinnarono sulla pietra, rotolarono ai piedi del giovane e cozzarono su dueinvolti di carta oleata, del genere che zia Caterina usava per il formaggio davendere al mercato. Non c’erano medicine di alcun genere, né corde, né garze nébende. Niente di tutto quello che avrei scommesso di trasportare. L’unicaeccezione era una fiaschetta di alcol trasparente, forse grappa pura. Perchézia Caterina non mi aveva protetta con uno zaino che avrebbe ingannato ilnemico? Perché non vi aveva messo le solite cose?Arrivaida sola alla risposta, logica e spietata: se i soldati mi avessero raggiunta,sarei morta comunque; venivano dalla valle, sapevano tutto. A quest’ora, ziaCaterina e tutti gli altri potevano già essere morti, torturati o deportati.Allora il Diaul era meglio? Lui siavventò su uno dei pacchetti di carta oleata. Lo scartò rabbioso e addentò ilformaggio come se non mangiasse da giorni. Solo in quel momento mi accorsi cheaveva le dita chiazzate di sangue rappreso.Dicolpo tornò il pensiero dei soldati che mi stavano alle calcagna con i Segugi.Fuori non si udiva più nulla, a parte il vento. Che fine avevano fatto?Mossiappena le labbra. «Sono andati via?» Lo chiesi più a me stessa che allo stranoragazzo. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle sue dita rossastre.Luisollevò la testa per guardarmi, ma non parlò né smise di addentare esbriciolare sul maglione. La sua espressione era strana: in qualche modo, isuoi occhi gelidi mi avevano dato una risposta a metà tra il sì e il no. Lopresi come un incoraggiamento. «Li hai...» deglutii, «uccisi?»Il Diaul smise di masticare, ma solo per unattimo. Era un sì.Ricominciaia tremare. «Anche i Segugi?»Questavolta non mi guardò. Il formaggio assorbiva tutta la sua attenzione. Incompenso, come risposta, sollevò una mano per mostrarmela.Mi sifermò il respiro. Come aveva potuto uccidere i Segugi? Nessuno poteva, nessunosapeva farlo. E a mani nude, per giunta.Quelloche avevo davanti era solo un ragazzo molto fortunato, o un diavolo in esilio?Sesoltanto le gambe avessero obbedito al mio terrore, sarei fuggita all’istante,fuori, nella notte, al gelo. A morire in pace.Maprima che potessi anche solo provarci, il Diaulcambiò posizione con un piccolo gemito di sofferenza: si sedette a terra inmodo risolutivo, le gambe incrociate e gli occhi che vagavano su di me. Mistudiava, mentre a bocca chiusa si puliva i denti con la lingua; ora che avevafinito il formaggio, aveva lineamenti e postura più rilassati.Unacalma letale, ricordai a me stessa, lasciandomi ipnotizzare dalle sue ditaimbrattate di rosso.«ISegugi. Come hai fatto?» domandai, quasi in trance dal terrore.Il Diaul si soffermò sul nastro nero deimiei capelli disfatti. «Li ho creati io» disse.La suarisposta mi raggelò.Ma aspaventarmi davvero fu il suo accento: zia Caterina proteggeva il nemico. Edera lui che doveva salvarci.
FINE