Non è vero. Come può esserlo? La prima volta le ho creduto. Il suo secondo tentativo di rassicurarmi ha fatto vacillare le mie parole. Ho aperto e chiuso la bocca, sbattendo le labbra come ciglia, e poi ho ripreso ad esporre. Quello che sto facendo ora, però, non è più un semplice e aggraziato esporre. Da circa quindici minuti mi ostino a sbattere sul banco cui sono seduta i pensieri e le costruzioni e le argomentazioni ai quali ho lavorato l’intera giornata di ieri, li sbatto come un pescatore sbatte le triglie nel ghiaccio.
So così bene quello che devo dire che posso lasciare proseguire la lingua e permettermi di uscire da me stessa, zoomare all’indietro con lo spirito e rimpicciolirmi, spostando il punto di vista dall’interno della mia mente al compagno di classe che ho alle spalle, alla parete che tutti noi abbiamo alle spalle, fino ad infiggermi nel muro di cartongesso.
Ho smesso di parlare: sto urlando. Violento le mie corde vocali, infilo parole in un tono di voce altissimo, anche se la loro taglia non coincide con quella gli abiti, e neanche il loro stile; allungo il collo; elemosino attenzione da un branco di animali che si arrampica ai rami di discorsi futili, lasciandosi oscillare con una maleducazione da primate e fregandosene dei brandelli di corde vocali che sacrifico per farmi ascoltare.
Intanto l’insegnante si agita dalla cattedra. A volte ne indica qualcuno, gli intima di cucire la bocca e poi si affaccia alla mia per controllare se sto ancora parlando. Altre volte, più spesso, si limita ad ignorare questo casino infernale, preme il mento sopra il palmo destro e mi osserva. Pensa ad altro, lei come tutti gli altri. Ancora aggrappata al muro, la guardo e guardo tutti loro. Quanto manca? Poco, fra poco avrò esaurito i pensieri, le costruzioni e le argomentazioni. Allora lei dovrà inventarsi un voto, qualcuno dei miei compagni s’inventerà un complimento, altri un sorriso.
Mentre intesso le conclusioni, qualche cosa si libra dal foro della mia mente, dove, al solito, la frustrazione si scazzotta con la rabbia. Molti sentimenti prendono parte al tumulto; io già so che rimarrà un cimitero di consuetudine.
Sono stanca.
Stanca di questo totalitarismo del grido. Stanca dell’attenzione di plastica che ormai non si accende neanche più negli occhi che ho di fronte. Stanca dei suoi rimproveri, delle sue urla, delle minacce vuote di punizione. Sono stanca soprattutto di loro. Manca il rispetto, la sagacia, manca l’amore per la parola. E intanto che traccio il voto sul libretto, quella cosa comincia a brillare sopra il conflitto; la frustrazione e la rabbia si fermano, lasciano il campo di battaglia. Non serve neanche formulare un pensiero. Lentamente, scivolo dentro di me.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro …
Montale firma i titoli di coda del mio ultimo, docile, ringraziamento alla professoressa. Piuttosto che un ‘grazie’ sentito, lo trovo il sigillo della mia protesta, il punto in cui l’ostinazione di chi allungava il collo e alzava la voce sfuma in un’altra ostinazione.
Sarà, circa, il silenzio.
*
La gente pensa che io non parli.
Potrei interpretare ciò come un’offesa, in realtà lo archivio fra gli argomenti a sostegno della mia tesi: la gente non ascolta. Fa solamente finta. Ha le orecchie aperte e dunque assorbe quel poco che può assorbire, ma le manca l’attenzione. Perciò perde tutto il materiale che i padiglioni hanno raccolto; lo lascia andare e, quando si accorge che non ha più niente con cui lavorare, deduce da quello che aveva già in testa. In pratica, invece di interpretare le parole dell’interlocutore interpreta le proprie; e capisce quello che vuole capire.
Un po’ sono curiosa d’incontrare quest’uomo. Dicono sia bravo. Anzi, dicono che sia costoso; aspetto che, secondo l’opinione dei più, comporta il talento. A me basta che le sue orecchie riescano a trattenere le mie parole, e in quanto psicologo lui dovrebbe essere un professionista dell’ascolto. Perciò sono molto tranquilla, di certo la più tranquilla del gruppo che mi sta attorno. Alzo gli occhi su mia madre, ci guardiamo. Le sorrido, giocherellando con la prima pagina di una rivista che ho trovato sul tavolo. Anche lei abbozza una smorfia simile alla mia, che però non le riesce. La lascia a metà, finché la porta dell’ufficio si apre.
Tocca a me.
*
A ciascuno tocca il suo.
Alla mia famiglia sono toccata io. A due persone normali ne è toccata una che sporgeva dal velo di anonimia, e lo ha bucato, strappato, esponendoli alla derisione e, che è quasi peggio, alla pietà altrui. Al dottor Z. è toccato spiegare che quella ragazzina che gli avevano spacciato per pazza aveva soltanto una gran testardaggine, e che non era diventata davvero muta. A me è toccata questa idea, così difficile da mettere in pratica, così facile da portare avanti, così impossibile da smettere.
Quando ho deciso di abbassare il mio tono fino quasi a spegnerlo, non sapevo che cosa questo avrebbe significato. Era piacevole non avere il controllo del futuro; era adorabile il paradosso di una pianificazione a lunghissimo termine che lasciava spazio a qualsiasi sviluppo casuale. Dagli altri non sapevo che cosa aspettarmi, ma ero convinta di aver inventato un ottimo discriminante, che mi avrebbe permesso di capire chi era intenzionato sul serio ad ascoltarmi e chi invece preferiva approfittare della mia scelta per dileguarsi.
Sono passati pochi anni dalla mia ultima interrogazione sgolata, e la vera sfida rimangono gli sconosciuti, perché loro devono ancora fare una scelta. La fatidica scelta di comportamento cui li metto davanti ogni volta che schiudo le labbra: ignorarmi per evitare problemi o cercarsi problemi interpretandomi, in genere perché il vizio di Ulisse e di Psiche è anche il loro. Ma ogni caso è a suo modo speciale, per il fatto che ogni sconosciuto rompe, rinsaldandolo contemporaneamente, il principio positivista di uniformità naturale.
Oggi, per esempio, ne ho conosciuto uno che sembrava volermi ignorare. Ero al mercato, in fila al banco del pesce, e oltre alla puzza sentivo una presenza dietro di me; entro qualche minuto, questa presenza ha tossito. Io, che avrei voluto voltarmi, ho dovuto fare un passo verso il venditore prima che qualcuno s’infilasse davanti a me. Poi, ho cominciato a ordinare. Il ragazzo, però, era nuovo; intendo nel senso latino del termine, cioè nel senso di recente. Diciamo che io non lo avevo mai visto e, soprattutto, a lui non avevo mai ordinato niente. Perciò, com’era prevedibile, quando ho cominciato a sussurrare l’ho gettato nel primo degli stati che di consueto mi vedo scorrere di fronte, se il mio interlocutore è gentile. Disagio, imbarazzo, fastidio… già si dirigeva verso la frustrazione, quando l’uomo dietro di me ha fatto qualche passo per recidere la nostra distanza e, rivolgendosi al giovane pescatore, ha riempito di voce i solchi che avevo lasciato nell’aria, semivuoti.
L’ho ringraziato con un bisbiglio.
Perché il bisbiglio è una specie in via d’estinzione di sussurro. Bisbiglio e sussurro non coincidono con esattezza; sono in relazione un po’ come il componente di una famiglia e la famiglia stessa, come un maglioncino umido e una bacinella per panni, perciò il sussurro contiene il bisbiglio. Ciononostante, al bisbiglio è concesso di sporgere dai bordi di plastica scolorita, di ripiegarsi in tutti i modi che desidera, di avere tutti gli arzigogoli che le labbra trovano opportuno cucirgli addosso.
Ciascuna volta in cui bisbiglio faccio quindi una metonimia, cioè inserisco poesia nella realtà.
(Fine prima parte )