Come Enrico IV, Marcello fu costretto ad recarsi a Canossa, perché continuare a vivere in quell’appartamento a spese della madre sarebbe stato peggio di una scomunica.
Conclusa quella disgraziata esperienza, era certo che fra le mura accoglienti della sua vecchia casa, confortato dal tenero affetto di Giovanna, sarebbe riuscito a raccogliere le forze necessarie al gran salto. Avrebbe ricominciato a sottoporsi ai frequenti e scomodi viaggi fra Nemi e Roma, soprattutto d’inverno, quando quelle tortuose e maledettissime strade diventavano una pista di ghiaccio, ma ripensando alla tristezza dell’appartamentino di Talenti gli pareva cosa di poco conto.
Il peggio sarebbe stato sopportare gli acerbi rimbrotti di Livia che, ancora una volta, avrebbe voluto che si trasferisse da lei. In quanto ad Alberto, poi, avrebbe certamente trovato il modo per rinfacciargli quel suo ennesimo fallimento.
“A volte, per fare un passo avanti, è necessario farne due indietro”, pensava Marcello mentre, con aria soddisfatta, restituiva la libertà ai suoi libri, ricollocandoli negli scaffali della biblioteca. Li aveva costretti per mesi in un piccolo acquario ed ora, finalmente, potevano tornare al mare. Gli parve che anche quelli più provati lo guardassero con occhi riconoscenti.
Era la fine di febbraio e il mese corto e maledetto stringeva le case del borgo, accoccolate ai margini estremi del cono vulcanico, con algidi artigli.
-Vieni a vedere, nevica!- gli urlò quasi Giovanna, che sprizzava gioia. Quando vedeva la neve, il suo umore malinconico svaniva d’incanto ed entrava in uno stato di grazia che le toglieva cinquant’anni di dosso e la faceva tornare ragazza.
Vicini alla finestra, tanto da appannare i vetri col fiato, assistevano a quel miracolo. Marcello la strinse a sé. Si guardarono negli occhi e si sorrisero complici, come quando lui era bambino e i capelli di Giovanna erano neri come le ali del corvo.
Rimasero a lungo assorti in quella visione, mentre un invisibile sole occiduo, con toni di grigio a mano a mano più profondi, smorzava la luce soffusa del giorno morente e come piccole stelle, circonfuse di un’aura ovattata, si accendevano i lampioni e le finestre, in un silenzio gravido di mistero. Quella piccola parte del mondo pareva racchiusa in una palla di vetro, in un tempo sospeso, in uno spazio dai contorni e dai color sfumati, percorsi da brividi di luce. E il dolce calore della casa li avvolgeva, dolce come il ricordo di cose buone e perdute.
-Mi è venuta voglia di una tazza di cioccolata!- disse Giovanna rompendo il silenzio.
-Ottima idea!- le rispose Marcello.
-Ti ricordi quando andavi a scuola? D’inverno la facevo sempre quando i tuoi compagni venivano a studiare a casa-.
-Certo che mi ricordo…quanto tempo!…-
Mentre Giovanna inzuppava un savoiardo nella sua tazza di cioccolata, la guardò con infinita dolcezza e i suoi occhi si velarono di una commozione che subito represse, mordendosi un labbro, perché sua madre detestava le svenevolezze. Era molto affettuosa, a suo modo, ma aveva un carattere riservato e preferiva manifestare i suoi sentimenti coi fatti, piuttosto che con le moine o le paroline dolci. A lui, invece, sarebbe piaciuto ancora farsi coccolare, come quand’era bambino.
Fra i ricordi più remoti e più cari della sua infanzia, quello di un pomeriggio d’estate: si vedeva disteso sul letto, accanto a sua madre. Faceva molto caldo e il sole tagliava la stanza con lame di luce che irrompevano dalle persiane socchiuse, animando la danza forsennata del pulviscolo impalpabile, sospeso in un’aria densa e soffocante. Giovanna giaceva supina, in sottoveste nera; sentiva ancora il suo corpo caldo e il suo buon odore di borotalco. Mentre le arricciava i capelli, osservava il suo petto imperlato di sudore, che si sollevava e si abbassava al ritmo di un respiro affannoso. E fra quelle morbide e calde colline, affondò la sua mano innocente. Nel ricordo, quelle tette gli apparivano immense, come quelle della Venere di Savignano, come quelle di un’immensa Dea Madre.
Dopo due tazze di cioccolata, qualche biscotto e qualche parola con Giovanna, Marcello tornò in biblioteca, per finire il suo lavoro prima di cena. Anche quella volta, sua madre, gli avrebbe cucinato il brasato.
Quel giorno la neve era discesa come un segno del cielo, come una promessa di vita nuova, e dolci ricordi avevano accarezzato la sua anima, aprendola ancora una volta alla speranza. E poi ci sarebbero stati il brasato e il Barolo. Era certamente il ventisette febbraio dell’Anno del Signore 2005.
Federico Bernardini
Illustrazione: Nevicata, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Sasso_pisano_nevicata_2009.JPG