Racconto ‘Nomi nella città’ – Davide Vitacca (terza parte)

Creato il 25 novembre 2011 da Temperamente

[vai alla prima parte; vai alla seconda parte]

Ma fin dove è arrivato con il suo convoglio sotterraneo? Sta per giungere alla fermata della Madeleine, a pochi minuti di distanza dal punto di partenza, ma gli sembra di aver viaggiato per ore, avvolto dal buio sonnolento dei cunicoli e dalle deboli luci al neon che sfrecciano con cadenza regolare. Qual è la sua reale destinazione? O per lo meno, se la conoscenza del punto d’arrivo ci è preclusa, qual è il luogo fittizio che si è imposto di raggiungere con tutta questa fretta?

Ora è scesa  la maggior parte dei turisti, ultime fermate utili Place de la Concorde, da cui raggiungere gli Champs Elysée, e Les Invalides, la tomba-mausoleo del corso immodesto.

Sul convoglio rimangono poche persone, a quest’ora la maggior parte della gente si muove in direzione del centro e il percorso contrario non è molto frequentato.

Chissà a che nomi avrebbe pensato il nostro Occupato (ci siamo arresi alla maiuscola) e quali ricordi e immagini ne sarebbero scaturiti se in Boulevard Beaumarchais avesse preso l’autobus anziché il metrò, se si fosse spostato in superficie guardando dal finestrino le nuvole addensarsi e risolversi in una giornata piovosa, osservando i passanti muoversi con rapidità, i furgoni delle consegne posteggiati in seconda fila a ostacolare il passaggio, robusti (e in carne) esploratori dalle lontane terre d’America camminare goffamente per raggiungere nel minor tempo possibile la maggior parte dei  monumenti fotografabili, regolando colori e prospettiva per  adattare lo scatto da esposizione all’arredamento della propria living room.

Nel vagone ormai vuoto il nostro protagonista si accorge di una ragazza che siede sul fondo, ha cominciato a parlare al telefono, scandisce con forza ogni parola per meglio farsi intendere e quando il treno prende velocità all’interno delle gallerie è costretta ad alzare la voce per sovrastare  lo stridente rumore di ferraglia; talvolta cade la linea e la telefonata riprende daccapo, portata avanti tutte le volte con sfumature di tono differenti.

Lourmel, la penultima fermata prima del capolinea. Siamo quasi alle porte della prima periferia. Lassù i palazzi bianchi e ordinati del centro a struttura ottocentesca,  con balconata in ferro battuto al quinto piano e tetto grigio di lamiera di firma hausmaniana, avranno lasciato il posto ai primi quartieri popolari con alti condomini, empori gestiti da immigrati e ristoranti etnici, supermercati a buon mercato frequentati da studenti fuori sede e pensionati. Quanto tempo sarà passato dall’inizio del tragitto sottoterra? Al massimo una mezz’ora, ma per l’Occupato, nello specifico anche occupante, il tempo si è dilatato in un polverone di suoni e significati e forse sta persino dubitando  del senso del suo incontro. Che si tratti di un appuntamento lo si può supporre da una busta che aveva riposta in tasca e che ora stringe tra le mani stropicciandone le estremità con le dita. Se si fosse trattato semplicemente di una lettera da inviare non ci sarebbe stato bisogno di recarsi dalla parte opposta della città, sarebbe stato sufficiente imbucarla nella cassetta all’angolo dietro casa.

La ragazza al telefono ora sembra che stia iniziando a ridere, si muove scomposta sul sedile, accavalla le gambe e con un movimento rapido si sistema la borsa sulla spalla. Parla velocemente, mangiandosi molte parole, un francese del sud con forte accento magrebino.

L’uomo ascolta e cerca di ricomporre il fio della conversazione, l’interlocutore è un’amica di nome Sophie e insieme stanno discutendo sulle future vacanze estive in Algeria, comprende qualche parola sparpagliata qua e là come ‘Marsiglia’, ‘Cabilia’, ‘berbero’ e poi il nome di un ragazzo che dovrebbe chiamarsi Soufien.

Il metrò arriva all’ultima fermata, rallenta, si ferma, le porte si aprono e il macchinista comunica attraverso il microfono la fine della corsa invitando i passeggeri a scendere dai vagoni. L’uomo e la ragazza escono appena prima che le porte si chiudano accompagnate da un allarme sonoro, si avviano su per le scale mobili e finalmente escono all’aperto. L’aria è fresca, sta cadendo una pioggerella fine, la ragazza si allontana di corsa verso un parco, l’uomo si ripara contro il muro di un palazzo sul quale lampeggia l’insegna al neon di un alimentari indiano: la scritta luminosa dice in un color viola acceso ‘Le paradis du kebab’. L’odore di carne arrostita si mescola al profumo di asfalto bagnato.

Siamo a Balard, il cui suono deciso ricorda il soprannome di un ragazzaccio poco di buono della periferia profonda, e a questa associazione mentale l’uomo accompagna un lieve sorriso.

La ragazza è scomparsa dietro la curva della strada, nessuno oltre a lui circola in quel minuscolo microcosmo cittadino. L’uomo apre la busta che teneva tra le mani e che ora si è inumidita con l’acqua, estrae un foglio, lo legge rapidamente e scuotendo la testa lo getta in un cestino della spazzatura. ‘Aiutateci a mantenere una città pulita’, recita il sacchetto verde che oscilla mosso dal vento.

Lo scrittore apre gli occhi. Sulla scrivania del suo studio è riposta una cartina stropicciata e sgualcita della città di Parigi e del suo sistema di trasporti urbano. Con il dito segue il percorso delle quattordici linee colorate, laddove incontra un cerchietto bianco cambia strada e colore, attraversa  quartieri e mercati coperti, passa sotto a parchi e giardini, sotto strade trafficate e vicoli deserti, e i quartieri cambiano quando cambiano le persone che vi abitano, i palazzi che ne disegnano l’assetto viario, i viali di scorrimento che li delimitano, i nomi che li designano, le insegne di metallo smaltato verde-blu che riportano nomi di illustri letterati e artisti, valorosi generali e intraprendenti comandanti, sovrani assoluti, efficienti funzionari, abili uomini di stato e leggendari popolani.

(Fine)


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :