Il mare è traditore. Tu lo conosci bene. Da anni sfiori la sua spuma opalina riversarsi sulla spiaggia come caduca carcassa d’uccello in balìa del vento. Avanti indietro. Ritmo ripetuto all’infinito. Tempo che scorre. Mormorii, brontolii. Stomaco sempre pieno. Non hai mai capito se la voce del mare è un dolore o una soddisfazione. Arriva al punto di dirti: Tu pensi troppo amico mio. E non sai se sei tu a crearti questo limite o è il mare a importelo. Le domande sono effimere quando le risposte sono già servite su plasma e satelliti sparsi un po’ ovunque in quel terso cielo che ti copre dal buio insormontabile dell’universo. Il mare non ha voce. Il mare è un oggetto. Il mare è insensibile, vittima della luna e del firmamento. Ma il mare, e tu lo sai, è anche un assassino. Forse involontariamente. Forse con meschina consapevolezza. Tu che sei il guardiano, tu che sei il raccoglitore, non puoi non sentirti soggiogato e rapito dalla sua cattiveria e dall’ossessione impulsiva di porti delle domande. È un perché iniziale che ti accompagna fino all’obitorio, fino al portone di casa e al solito sorriso. Fin sotto le coperte. Nei sogni. Negl’incubi. Nel giorno successivo e quelli dopo. Non potrai mai terminare. Loro non finiscono mai di raggiungere la costa e sai e non sai cosa sono. Sono diversi da te, ma hanno la tua identica forma. Una testa, due gambe, due braccia, un torace. Ma sono diversi. Da dove vengono? Perché arrivano qui? Perché sono morti, morti, morti? Le Pattuglie d’Ordine le vedi lì in fondo al blu scuro, tra le onde. Le loro luci rasentano l’acqua. Cercano, ma sembra che non trovino mai nulla. La loro risposta al mondo è: “Controlliamo. Puliamo”. Ma cosa vogliono dire? E cosa sono loro? Questi cadaveri mangiucchiati da pesci e sale acido, da dove vengono? Dallo stomaco poroso del mare? Qual è il loro obiettivo? “Tu sei stato progettato per proteggere i tuoi confini. Uomo: tu sei una macchina di pelle al servizio della società. La società ha le sue regole, le sue norme, la sua struttura mediatica e politica. Tu non devi fare altro che seguire i canoni prescelti. Tutto è fatto per il tuo bene. Per essere felice. Per non sbagliare. Per vivere in eterno”. E loro? Loro di quale sistema fanno parte? “Hai un lavoro. Sei parte di questa società. Contribuisci alla sua crescita. Giochi un ruolo fondamentale. Sei tu che manipoli il tuo destino. Noi costruiamo solo la base e demarchiamo la strada. Noi ripieghiamo agli errori del passato per farti avere un percorso orizzontale senza intoppi o ferite che ti condurrebbero a futili malie mentali e fisiche. Non ti porre domande. Noi abbiamo già tutte le risposte. Chiedi, ti sarà dato. Ogni giorno, ti è sempre dato”. Tu non sai se anche i tuoi compagni hanno questi pensieri, questi punti interrogativi. Parlate del tempo, del mare in burrasca, della cena di ieri sera, della partita a calcio nel parco vicino al Ministero dell’Informazione. Mai di lavoro. In silenzio si prende il cadavere, lo si mette su di una barella di ghisa azzurrognola, lo si deposita nella macchina funebre, ci si siede ai lati davanti al morto coperto da un telo verde scuro e si parte alla volta dell’obitorio.
Lui cammina per la via principale. Le mani in tasca. Deve recitare una parte. Quindi fischietta un motivo con le labbra tirate in avanti. La sua mente deve essere sempre impegnata. Questo alleggerisce la tensione. Menefreghismo. Mai un pensiero serio. Solo superficialità, spensieratezza. Sta andando al campo di golf a vedere suo figlio allenarsi. Domani ha una partita importante contro quell’odioso di Micheal Sum, campione cittadino da ormai più di un decennio. Un vecchio che si diverte a innalzare coppe e stringere mani davanti alla testa china dei suoi rivali. Bambini o adulti che siano. È bravo, forse un campione, ma c’è di mezzo anche l’altra faccia della medaglia. Non è solo un vecchio stronzo, veterano di quei campi verdissimi e pulitissimi; è anche il magnate dell’unica fabbrica di cemento della città. Chi ha il coraggio di farlo perdere? Lui offre lavoro, cemento, manodopera per tutto quello che c’è in questa città. Dalle piazze alle case, dagl’alberi ai lampioni. Non esisterebbe questa città senza la sua fabbrica. Lo sanno tutti. Bisogna prenderla come un onore, cioè un onore giocare contro di lui, il magnifico Micheal Sum. Un ossequioso passatempo che convoglia in una foto con stretta di mano e un autografo sghembo da poggiare in salotto o sulla scrivania da lavoro. Ora tocca a suo figlio. Ama quello sport. Lo pratica da quando ha sette anni. Una passione intrinseca al suo corpo, alle sue mani, nel suo cuore. Si allena ogni giorno. Dalle 15 alle 20. Con vera passione. Ora, a 17 anni, ha battuto tutti i suoi coetanei, tutti gli adulti e professionisti. È seduto sull’apice. Manca solo lui. Michael Sum. Gli dispiace per suo figlio. Gli dispiace sapere che fine farà la sua gioia e la sua passione. In una foto. Mentre cammina in una via, dopo aver svoltato all’incrocio tra via Sogni e via Libertà, abbassa un po’ la testa e volta gli occhi a sinistra, in direzione della strada. Sulla destra degl’uomini vestiti di nero con strisce rosse fluorescenti, chiamati Squadroni di Recupero, stanno picchiando e violentando moralmente, con subdole imprecazioni e papelli di leggi da seguire rimarcate nel libro dell’Ordine e Giustizia, una famiglia nuda, prona sul prato. Una donna, un uomo, forse due o tre bambini. Non ha fatto in tempo a vedere. Fischia più forte per dimostrarsi indifferente, per mostrarsi impegnato nei fatti propri. Menefreghista. Forse un litigio che ha portato a qualche parola di troppo. Forse una lacrima. Chi lo potrà mai sapere? Lui deve passare oltre. Nessun aiuto. Mai. È già complicato gestire i propri sentimenti, il proprio impulso. Si salva solo chi ha la forza di non interferire. Il potere è stato scelto ed ha il compito di far rispettare le regole. “Questa non è violenza, è salvezza dell’anima e della vivibilità reciproca. La vera violenza è la libertà di gesti, azioni, impulsi, sentimenti allo sbaraglio del vuoto che la vita ha come pilastri delle sue fondamenta. La vita senza rigore e leggi da seguire è come un auto senza freni. Corre, corre e presto andrà a sbattere per frenare la sua discesa”. Tutto è destinato ad una fine. Disastrosa o piacevole che sia. Si può scegliere. Estremo nord o estremo sud. Non ci sono vie di mezzo. Sono già state superate. Chi trasgredisce viene deportato. Nessuno può sapere dove. C’è chi dice in campi di recupero. C’è chi afferma di averne visti alcuni in Tv, camminare in altri paesi limitrofi. C’è chi addirittura ipotizza che vengono gettati in mare. Il suo lavoro quindi è l’ultimo pezzo della macchina? Gli è balenato molto spesso questo pensiero in testa, fino a quando non è successa una cosa che lo tormenta tutt’oggi. Soprattutto tormenta il suo stomaco. Lui lo chiama “deposito di immagini”, ma anche “custodia di vita”. Oltrepassa via Fraternità e incrocia una bambina seduta sul ciglio della strada. Potrà avere 8 anni. Ha in mano un foglio e una penna. Appena lo vede, alza i suoi occhi verdi e li punta sui suoi castano scuro. La osserva con curiosità. Lei ricambia con un sorriso. Appena lui giunge a pochi passi da dal suo corpicino, lei si alza di scatto e dice: «Undicimilaseicentoquarantasei. Guarda quanta è lunga questa parola una volta scritta!». Stupito, legge e risponde: «Vero. Ma cosa vuol dire questo numero?» e la bambina toltosi un ricciolo biondo cadutole sul naso mentre alza la testa dal foglio verso il volto di lui: «Sono tutti quei cadaveri che vengono raccolti sulla spiaggia». Lui, sbiancato e indurito in volto come un pezzo di gesso al sole, con voce tremante e irosa, dice: «Chi ti ha dato questa informazione?». La bambina, invece di rispondere, inizia a danzare girando su se stessa, cantando quel numero con voce dolce e sottile. Lui, terrorizzato, strappa il foglio dalle sue piccole mani e, riducendolo in piccoli pezzettini, lo ingurgita con velocità, senza pensare a nulla. La bambina osserva inorridita la sua fronte piena di nervi rialzati e le sue guance viola dall’ira e dallo sforzo di inghiottire tutta quella carta sulla quale c’è solo scritto un lungo numero nero. È spaventata. Immobile. Balbetta: «Li ho contati…». Lui alza lo sguardo tetro su di lei: «È impossibile». Si sentono già le sirene. Vorrebbe che non succedesse. Ma o lui o lei. Bisogna sopravvivere. Il sue gesto non è passato inosservato. Deve spiegare. Deve salvarsi. Impulso. Paura. Prassi. L’afferra e la tiene stretta a se. Un paio di secondi dopo lo Squadrone è sul posto. Lui spiega. Loro sanno già tutto. Lui offre una scusa per il suo gesto: sicurezza. Loro non hanno niente da dire. Prendono la bambina e la caricano in auto. Senza una lacrima o un grido. La vede dal finestrino guardarlo con dispiacere. Salutarlo lentamente. Lui vorrebbe gridare. Strapparsi le budella e schiacciarle fino a vederle una poltiglia schifosa su un marciapiede schifoso, in una città schifosa. Lui vorrebbe dire la verità. “Sono un mostro, dice, sono un vigliacco. Sono come loro mi vogliono. La paura perché ci rende così bastardi? È solo una bambina. E io sono solo un altro buon cittadino che vive avendo paura di vivere”. Si guarda intorno. Sicurezza. Prassi. Nessuno in strada. Nessuno alle finestre. Certamente hanno visto ogni cosa. Anche la famiglia della piccola dai riccioli biondi. Silenzio, solo e sempre silenzio. Senza scomporsi, anche se le lacrime gli bruciano le pupille rosse, prosegue lungo la via. Dal luogo dove si trova adesso, fino al campo di golf, ci sono solo due isolati di distanza. Due isolati. Li percorre in fretta, fischiando forte e guardando dritto verso di se, come se mirando verso un punto fisso il passato potesse cancellarsi. Sa la risposta: perché? Un’altra domanda. Sempre, ovunque un’altra domanda. Divoratrice.
[fine della prima parte]