Potrebbe aver ragione il numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone a definire una “rivoluzione copernicana” le misure contenute nel protocollo siglato con Alfano e che prevedono una clausola precisa: la risoluzione del contratto nel caso emergano reati di corruzione. Potrebbe aver ragione a pensare di impiegare gli istituti nati per contrastare la mafia in funzione anticorruzione. Potrebbe aver ragione, anche se le nuove regole non avranno effetto retroattivo, nel confidare in una fattiva collaborazione tra Autorità, prefetture ed enti locali, e stazioni appaltanti finalizzata alla “prevenzione dei fenomeni di corruzione e l’attuazione della trasparenza amministrativi” introducendo accanto alle tradizionali clausole antimafia, regole tese a rafforzare “gli impegni alla trasparenza ed alla legalità pure in ambiti non strettamente riconducibili ai rischi di aggressione da parte del crimine organizzato”. Potrebbe aver ragione nel fare affidamento in regole e competenze volte a riconoscere alla stazione appaltante la potestà di azionare” la risoluzione del contratto “ogni qualvolta l’impresa non dia comunicazione del tentativo di concussione subito”, nonché “in tutti i casi in cui, da evidenze giudiziarie consolidate in una misura cautelare o in un provvedimento di rinvio a giudizio, si palesino accordi corruttivi tra il soggetto aggiudicatore e l’impresa aggiudicataria”.
Potrebbe. Ma forse proprio la sua esperienza sul campo, condotta nel contrasto alla criminalità mafiosa lo porta a peccare di ingenuità rispetto all’altra criminalità organizzata, quella costituita da imprese, amministratori e controllori sleali, politica, istituzioni finanziarie, e che si regge su una cultura, quella del profitto e dell’interesse privato, che non prevede edificante o utile pentimento, non dà forma a organismi anti racket, non registra il sacrificio di eroi che si ribellano a un sistema delittuoso, non ha prodotto diffuse e generalizzate forme di opposizione, ribellione, condanna, riprovazione. Eppure le vittime, i caduti sul campo ci sono lo stesso, il sangue è stato versato, quello di imprenditori o lavoratori suicidi, quello, virtuale, delle leggi e della morale, quello della libera concorrenza e della competitività, quelle vere che si fondano sull’esistenza e il rispetto di criteri che garantiscano pari accesso, pari trattamento, pari opportunità, quello del lavoro, reso opportunamente più precario, più flessibile, più irregolare e incontrollato in modo da favorire l’economia informale, le aziende che si sottraggono a leggi e controlli ungendo le ruote, stringendo alleanze opache con il sistema politico, confidando in un esteso consenso, frutto di assuefazione alla corruzione e all’illegalità, opportunismo, processi imitativi su scala, ma anche di ricatti, estorsioni, “protezioni”, proprio come fanno le mafie che il Dottor Cantone conosce bene, ma sottovaluta quando gli stessi modi vengono trasferiti a grandi opere, grandi elettori, grandi eletti, grandi imprese.
È che chi entra nella sfera, nella bolla gassosa del potere se non ne viene contagiato, intossicato, inebriato, forse viene colto da un delirio di onnipotenza o forse di influenza e si convince di cambiare, uomo solo a un comando dove magari è stato collocato proprio per darla a bere al popolino malcontento, a media sempre in cerca di motivi per spandere untuoso consenso, mentre dietro le quinte tutto resta come era, le imprese corruttrici mantengono i contratti perché the show must go one, l’Expo si deve fare per non perdere la faccia, il Mose salva Venezia dalle acque e la Tav ci permetterà di andare in un lampo a Lione non si sa a fare che cosa. E per quanto riguarda il futuro, altri Grandi Eventi, altre Grandi Opere, altri Grandi Ladrocini si vedrà, a provvedere ci penserà la logica delle Grandi Emergenze che mettono perfino persone per bene a legittimare Grandi Misure Speciali, Grandi Licenze, Grandi Deroghe.
Sono passati più di venti anni da quando l’inquinamento diffuso passò il segno della ragionevole tolleranza, del possibile riassorbimento. Eppure il processo degenerativo non si è fermato, anzi: non serve l’antropologia, occorre la medicina per diagnosticare e interpretare l’ampiezza del coinvolgimento e la complessità del fenomeno, la irreversibilità probabile del mutamento che si è prodotto nel Paese o forse della conferma di un patrimonio genetico già affetto dalla patologia. È peggiorato per alcuni evidenti motivi: la moltiplicazione dei centri periferici di spesa a fronte della contrazione della facoltà impositiva di quelli esistenti, la proliferazione di una classe politica locale avida, spregiudicata a fronte della cancellazione dei sia pur giù labili organismi di controllo, la diffusione dei formule amministrative – che il governo auspica di incrementare – intese a “dinamizzare” le decisioni, il dilagare di quella che è stata chiamata la “sovra fiscalità” partitica, con formule di finanziamento “decentrato” che ha esteso la massa dei grandi e piccoli esattori e dei grandi elettori, così che si è alterato definitivamente il processo di selezione del personale politico.
E tutto questo si è incistato in una ideologia che ha penalizzato l’”industria” produttiva, per esaltare i profitti finanziari, che ha convertito il fare nella annunciata a propagandata “progettazione” di opere, interventi, transazioni, investimenti, capaci di far girare le fiches del casinò planetario, immateriali e impalpabili, in un gioco di scatole cinesi di incarichi, appalti, gare truccate, consulenze e consigliori, dove gli attori sono sempre gli stessi al servizio sempre degli stessi padroni. E il teatro, duole dirlo, è un Paese allo stremo dove l’opinione e il voto restano immutati a premiare vecchie e nuove Dc, in quel serbatoio antico di piccola borghesia impoverita e regredita a massa disordinata, riottosa, brontolona, ma accanita in modo tenace e sanguigno nella difesa del suo sempre più misero e minacciato particulare.
Non si vede via d’uscita dagli inferi, troppi si sono persuasi dell’ineluttabilità di camminare sul “mal suol e di lume disagio”, come fosse l’unico destino.