Un incontro chiesto al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per discutere sui temi della cultura, un’azione comune con Federculture e Agis per approfondire le prospettive nel campo culturale, una riflessione sulla poca attenzione che la politica dedica alla cultura, e poi i capitoli spinosi relativi a cinema e lirica. Andrea Ranieri, delegato Anci alle politiche culturali, tocca molteplici aspetti nell’intervista rilasciata al “Giornale dello Spettacolo”.
Ranieri cosa si aspetta dall’incontro che come Anci avete chiesto al Presidente del Consiglio, Berlusconi, sui temi della cultura?
“Intanto, ad oggi non abbiamo avuto alcuna risposta, e, dunque, rimane tutto in piedi il grosso tema di come mettere in discussione alcune norme contenute nella manovra finanziaria dell’anno scorso, gravemente lesive dell’autonomia degli enti locali e della loro possibilità di fare politica culturale. Gli effetti di questa situazione sono molto contraddittori e brutti anche per lo spettacolo: per esempio, mentre sto discutendo al ministero della Cultura sul nuovo regolamento delle fondazioni liriche, il ministero dell’Economia continua a pensare che i componenti del consiglio di amministrazione delle stesse fondazioni non debbano essere superiori a cinque, di fatto vanificando e contraddicendo l’apertura ai capitali privati che il governo ha annunciato come un suo obiettivo fondamentale nella riforma Bondi. Ciò rivela scarsissima collegialità da parte del governo e la pericolosa contraddittorietà nell’interpretazione di alcune norme da parte degli stessi ministeri rischia di esporre il mondo della cultura e dello spettacolo ad un contenzioso infinito, che è la cosa peggiore che possa succedere in un momento in cui servono scelte coraggiose per dare reali prospettive di riforma a tutto il settore”.
A proposito di prospettive, lei punta a continuare un’azione comune, anche insieme a Federculture, Agis e altre realtà?
“Si. Noi abbiamo a settembre un importante appuntamento a Roma, un forum che coinvolgerà tutti gli assessori alla cultura dei comuni d’Italia. Stiamo lavorando perché questo appuntamento si estenda alle Regioni, all’Agis, a Federculture, all’insieme del mondo dello spettacolo e della cultura, così, lo stesso schieramento che ha affrontato l’emergenza tagli, ottenendo il reintegro del Fus, potrà trasformarsi in un fronte di proposta, capace di impegnare il governo, qualunque esso sarà, in un discorso di prospettiva. Il Comune di Roma, che si è offerto di organizzare l’evento, è molto impegnato affinché questo appuntamento si svolga nel modo più adeguato, a partire dall’individuazione di una sede prestigiosa. Se con il ritiro dei tagli al Fus abbiamo tirato una boccata d’aria, ottenuta con una mobilitazione senza precedenti della cultura e di tutte le città italiane, di qualunque colore politico, ora dobbiamo dimostrare che quello stesso fronte è capace di diventare portatore di un progetto strutturale pieno di contenuti, che faccia fare passi avanti al paese in termini di economia, di coesione sociale, degli stessi diritti di cittadinanza”.
Ma nell’ultima campagna elettorale per le amministrative, la cultura non sembra essere emersa. Lo si deve alla radicalizzazione della lotta politica o alla sottovalutazione del tema?
“Secondo me, la causa è la sottovalutazione. Naturalmente la situazione è diversa da una città all’altra, ma la questione è antica. La politica italiana continua a fare fatica a comprendere quali riflessi la cultura e tutte le politiche del sapere, della conoscenza, hanno oggi nell’economia, nella società in generale. Personalmente, sono rimasto molto legato all’epoca di Jacques Delors, presidente della Commissione europea, e della prima Conferenza di Lisbona (1992 n.d.r.), quando si sosteneva che la conoscenza è l’unico modo di tenere insieme l’Europa del futuro. E’ un discorso rimasto per molti aspetti sostanzialmente debole. Eppure, scommettere sul sapere significa davvero privilegiare gli interessi del futuro, invece dei conflitti del presente. Ma sembra che spesso la politica non sia capace di capirlo”.
Veniamo all’attività dei comuni: come possono impiegare meglio i fondi destinati alla cultura?
“Penso che all’assessore alla Cultura competa di aprire delle opportunità e offrire un contesto politico propizio in cui gli operatori della cultura, imprenditori o meno, trovino il terreno giusto per investire soldi e idee. Ciò significa anche seguire una politica economica molto oculata: aprire alle opportunità significa anche costruire le condizioni perché le opportunità non finiscano in sprechi o comunque a soggetti che non sono in grado di utilizzare al meglio le risorse pubbliche. In una situazione di puro mercato la produttività è un optional: chi non la segue, fallisce. Invece, in una situazione di ‘quasi mercato’, come è quella della cultura e dello spettacolo, che ha comunque bisogno di un sostegno pubblico in tutto il mondo, la produttività diventa un dovere assoluto, che si traduce nell’obbligo di impiegare al meglio le risorse pubbliche. Questo è il salto culturale che dobbiamo fare. Molto spesso, la parola produttività è stata semplicemente collegata a privatizzazione, mentre io credo che debba diventare un valore soprattutto quando i soldi sono pubblici”.
Sul dettaglio dello spettacolo, il cinema chiede da tempo che i comuni si impegnino a salvaguardare le sale di città, che sono in crisi. Lei che ne pensa?
“Vivo questo problema nella mia città, a Genova, che ha una grande tradizione da questo punto di vista e noi siamo impegnati a salvaguardare i cinema del centro storico. Questa però è una questione che è anche collegata al federalismo fiscale: io credo che bisogna studiare per questi soggetti una politica di incentivi, anche fiscali. Ciò richiede certamente un impegno degli enti locali ma anche un quadro normativo nuovo. Io non posso per esempio esentare da tasse se non c’è una legge che me lo permette, eppure trovo superato che i cinema paghino la Tarsu. Insomma, è giusto spingere le città ad agire ma bisogna predisporre gli strumenti normativi che ci consentano di intervenire”.
Parliamo di lirica: cosa non le piace della riforma Bondi?
“Innanzitutto non mi piace che viviamo sempre di riforme incomplete, con la conseguenza che le fondazioni liriche continuano ad essere un ibrido difficilmente sostenibile. Ma anche adesso, nella discussione sulla riforma dei regolamenti che, come Anci, ci sta impegnando al MiBAC, non possiamo affrontare una discussione di fondo perché alcune questioni non sono risolvibili per via puramente regolamentare. Poi, non mi piace che la figura del sovrintendete sia costruita con pochissimo riferimento alla sua capacità gestionale e manageriale. Non mi piace che ci sia una scarsissima cultura dell’organizzazione del lavoro all’interno di gran parte delle fondazioni liriche. Non mi piace la proliferazione di contratti integrativi o addirittura di cose che non sono nemmeno contrattualizzabili ma che sono diventate convenzioni e che rendono molto difficile una gestione ragionevole delle risorse umane e della programmazione. Non mi piace che ci sia poca cultura del repertorio, della replica, del magazzino intelligente, per cui rischiamo di avere tutte “prime”, almeno per quel che riguarda i costi. Così, l’aumento dell’attività diventa un aumento di costi senza i risparmi che la maggiore produzione dovrebbe consentire. Sono problemi grossi, sui quali, sia chiaro, abbiamo responsabilità anche noi Comuni, perché ci sono questioni che vanno affrontate dal governo per via regolamentare e legislativa, ma ci sono altre questioni che riguardano il funzionamento concreto delle fondazioni e che vanno affrontate dagli enti locali, assieme all’associazione dei sovrintendenti e ai sindacati”.
A Genova cosa state facendo in proposito?
“Stiamo affrontando proprio questi problemi, partendo da una situazione particolarmente difficile quale è quella del Teatro Carlo Felice, che sembrava messo peggio di tutti. In realtà, avendo con molto coraggio applicato per primi i contratti di solidarietà, gli ammortizzatori sociali, e costruito una strategia di risanamento forte, siamo stati capaci di attrarre nuovi fondi privati e oggi siamo tra quelli che ce la possono fare, sia pure non perdendo di vista tutte le difficoltà del caso”.
Parliamo di prospettive più generali. Cosa c’è ora da fare?
“Dobbiamo lavorare ad un sistema di welfare e ammortizzatori sociali tarato sullo spettacolo. E’ evidente, infatti, che se prendiamo, per esempio, i contratti di solidarietà così come sono normati per l’industria e li applichiamo al teatro lirico, qualche problema ce lo abbiamo. L’organizzazione del lavoro nello spettacolo è diversa da quella dell’industria metalmeccanica. Ma sono convinto che i fondi su cui basare un welfare dello spettacolo ci sono, e sono nel grande attivo dell’Enpals, che ha in cassa circa un miliardo e mezzo e ha un bilancio di previsione con un attivo di 311 milioni, che non possono restare inutilizzati. Anche perché quell’attivo è frutto di un’ambiguità, visto che il 60% di chi paga quei contributi, la pensione non la prenderà mai perché non raggiungerà i requisiti. Allora, ci vuole un welfare dello spettacolo che permetta di avere ammortizzatori sociali che tengano conto della specificità del settore; che consenta politiche di sostegno al lavoro precario; che aiuti soprattutto i giovani lavoratori nel periodo in cui il lavoro non ce l’hanno; che favorisca la possibilità di fare formazione e qualificazione. Insomma, qualcosa di non molto diverso dagli strumenti che ci sono già nel commercio o nell’edilizia, dove per esempio funziona la cassa edile, cioè quello strumento, creato insieme dalle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori, che utilizza parte dei contributi proprio per fare politiche attive del lavoro. Non vedo perché non si possa fare una sorta di cassa edile nello spettacolo, che versa ogni anno una massa di contributi, molto superiore alle pensioni che vengono pagate. Non so se è chiaro”. (am)
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