Rapporto annuale 2013 by Amnesty International

Creato il 25 maggio 2013 da Philomela997 @Philomela997

Diritti umani

E’ uscito il rapporto annuale di Amnesty, di cui posto l’introduzione. Il testo completo si può scaricare gratuitamente in pdf.

Fonte: Rapporto annuale 2013

Introduzione

I diritti umani non conoscono confini

di Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International

L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque. Siamo tutti presi in una rete di reciprocità alla quale non si può sfuggire, legati a un unico destino. Qualsiasi cosa colpisca direttamente uno, colpisce indirettamente tutti.

[Martin Luther King Jr, Lettera dal carcere di Birmingham, Usa, 16 aprile 1963]

Il 9 ottobre 2012, in Pakistan, talebani armati hanno sparato un colpo alla testa della quindicenne Malala Yousafzai. La sua colpa era di aver invocato il diritto all’istruzione per le ragazze. Il suo mezzo di comunicazione, un blog. Come Mohamed Bouazizi, il cui atto estremo nel 2010 aveva innescato un effetto a cascata di proteste nell’intera regione del Medio Oriente e Africa del Nord, la determinazione di Malala è andata ben oltre i confini del Pakistan. Il coraggio e la sofferenza delle persone, insieme alla potenza senza confini dei social network, hanno cambiato la nostra visione della lotta per l’affermazione dei diritti umani, dell’uguaglianza e della giustizia e hanno determinato un sensibile cambiamento del dibattito che circonda il concetto di sovranità e diritti umani.

In ogni parte del mondo la gente è scesa per le strade, correndo un grande rischio personale, si è esposta nella sfera digitale, per mettere in luce la repressione e la violenza esercitate dai governi e dagli altri potenti attori. Attraverso i blog, i vari mezzi di comunicazione sociale e la stampa tradizionale, la gente ha creato un sentimento di solidarietà internazionale in grado di far rivivere il ricordo di Mohamed e i sogni di Malala.

Tale coraggio, insieme alla capacità di comunicare la nostra profonda fame di libertà, giustizia e diritti, ha messo in allarme i potenti. Le espressioni di sostegno a coloro che manifestano contro l’oppressione e la discriminazione sono in aperto contrasto con le azioni di molti governi che reprimono proteste pacifiche e tentano disperatamente di co trollare la sfera della comunicazione digitale, ristabilendo anche qui i loro confini nazionali.

Pertanto, che cosa potrà significare per i potenti, che si aggrappano al concetto di “sovranità”, e abusano del suo significato, rendersi conto della forza potenziale che ha la gente di smantellare le strutture di governo e di puntare i riflettori sugli strumenti della repressione e della disinformazione che loro usano per restare al potere? Il sistema economico, politico e commerciale creato da coloro che detengono il potere spesso è stato la causa di violazioni dei diritti umani. Ad esempio, il commercio delle armi annienta vite umane eppure viene difeso dai governi, che o impiegano le armi per reprimere il proprio popolo o traggono profitto dal loro commercio. Il tutto è giustificato in nome della “sovranità”.

SOVRANITÀ E SOLIDARIETÀ
In questa ricerca di libertà, diritti e uguaglianza, dobbiamo ripensare il concetto di sovranità. La forza della sovranità dovrebbe – e di certo può – derivare dalla conquista del proprio destino, come è accaduto per gli stati emersi dal colonialismo o dalla sottomissione di paesi vicini o che sono sorti dalle ceneri di movimenti che hanno rovesciato regimi repressivi e corrotti. Di certo, questo è il potere della sovranità. Per mantenerlo vivo e per limitare la sua strumentalizzazione, dobbiamo ridefinire il concetto e riconoscere sia la solidarietà globale sia la responsabilità globale. Siamo cittadini del mondo. Possiamo interessarci a ciò che avviene altrove, perché abbiamo accesso alle informazioni e possiamo scegliere di non rimanere chiusi nei confini.

Gli stati si richiamano regolarmente alla sovranità, facendola corrispondere al controllo sugli affari interni senza interferenze esterne, per poter fare quello che vogliono. Si richiamano alla sovranità, comunque in modo pretestuoso, per nascondere o negare uccisioni di massa, genocidi, oppressione, corruzione, morte per fame o persecuzione di genere.

Ma chi abusa del potere e dei propri privilegi non può più nascondere facilmente tali abusi. Le persone registrano con i telefoni cellulari e caricano in rete filmati che rivelano la realtà delle violazioni dei diritti umani in tempo reale e fanno luce sulla verità al di là della retorica ipocrita e delle giustificazioni autoreferenziali. Analogamente, le multinazionali e altri potenti attori privati sono più facilmente soggetti a controllo in quanto le conseguenze delle loro azioni, per quanto subdole o criminali, sono ormai difficili da nascondere.

Operiamo in un sistema dei diritti umani che dà per scontato il concetto di sovranità ma che di fatto non lo difende, neppure dopo la formulazione della dottrina della Responsabilità di proteggere, concordata nel corso di un summit mondiale delle Nazioni Unite nel 2005, e ripetutamente riaffermata da allora. È facile vedere perché; anche solo nel 2012 ci sono stati molti esempi di governi che hanno violato i diritti delle persone che governano.

Un elemento chiave della protezione dei diritti umani è il diritto di tutte le persone di e sere libere dalla violenza. Un altro elemento fondamentale è dato dai forti limiti imposti alla possibilità dello stato d’interferire nella nostra vita e in quella dei nostri familiari. Ciò comprende la protezione della nostra libertà d’espressione, associazione e coscienza. Significa anche non interferire con il nostro corpo e con i modi in cui lo impieghiamo, ovvero con le decisioni che prendiamo in termini di riproduzione, d’identità sessuale e di genere e con il modo in cui scegliamo di vestirci.

Nei primi giorni del 2012, 300 famiglie sono rimaste senza tetto nella capitale della Cambogia, Phonm Penh, dopo essere state sgomberate con la violenza dal loro quartiere. Soltanto qualche settimana dopo, 600 brasiliani sono andati incontro allo stesso destino nella baraccopoli di Pinheirinho, nello stato di San Paolo. A marzo, in Giamaica 21 persone sono state uccise in una serie di sparatorie dalla polizia, in Azerbaigian musicisti sono stati percossi, arrestati e torturati in detenzione e il Mali è sprofondato in una crisi in seguito a un colpo di stato nella capitale Bamako.

E così via: altri sgomberi forzati sono stati attuati in Nigeria; giornalisti sono stati assassinati in Somalia, in Messico e altrove; donne sono state stuprate o sessualmente aggredite tra le mura domestiche, per strada o mentre esercitavano il loro diritto di manifestare; persone Lgbti sono state duramente picchiate mentre alle loro comunità è stato impedito di partecipare agli eventi del Pride; attivisti dei diritti umani sono stati uccisi o mandati in carcere per accuse false. A settembre, per la prima volta dopo 15 anni, il Giappone ha messo a morte una donna. A novembre c’è stata una nuova escalation del conflitto tra Israele e Gaza, mentre nella Repubblica Democratica del Congo decine di migliaia di civili sono fuggiti dalle loro abitazioni quando il gruppo armato Movimento 23 marzo (M23), sostenuto dal Ruanda, ha marciato sulla capitale della provincia del Nord Kivu.

E poi c’è stata la Siria. A fine anno, secondo le Nazioni Unite i morti ammontavano a 60.000 e il loro numero purtroppo era in continua crescita.

MANCANZA DI PROTEZIONE
Troppo spesso negli ultimi decenni, la sovranità degli stati, sempre più strettamente legata al concetto di sicurezza nazionale, è stata impiegata per giustificare azioni contrarie ai diritti umani. A livello interno, i detentori del potere sostengono di essere gli unici a poter prendere delle decisioni riguardo alla vita delle persone che governano.

Come aveva fatto suo padre prima di lui, il presidente Bashar al-Assad si è mantenuto al potere mettendo l’esercito e le forze di sicurezza siriane contro il popolo che gli chiedeva di andarsene. Ma c’è una fondamentale differenza. All’epoca del massacro di Hama, nel 1982, nonostante Amnesty International e altri avessero messo in luce ciò che stava accadendo e lavorato instancabilmente per cercare di porvi fine, le uccisioni di massa erano avvenute in larga parte lontano dagli occhi del resto del mondo. Al contrario, negli ultimi due anni, coraggiosi blogger e attivisti siriani sono riusciti a raccontare direttamente al mondo ciò che stava succedendo nel loro paese, persino nel momento stesso in cui accadeva.

Nonostante il crescente numero di vittime, e malgrado le numerose prove dei crimini commessi, ancora una volta in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha provveduto a proteggere i civili. Per quasi due anni i militari e le forze di sicurezza siriani hanno lanciato attacchi indiscriminati e detenuto, torturato e ucciso persone perché sospettate di sostenere i ribelli. Un rapporto di Amnesty International ha documentato 31 differenti forme di tortura e altri maltrattamenti. Gruppi armati d’opposizione hanno inoltre perpetrato uccisioni sommarie e torture, benché di portata più limitata. Il mancato intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite viene difeso, in particolare da Russia e Cina, in nome del rispetto alla sovranità dello stato siriano.

L’idea che né i singoli stati né la comunità internazionale debbano intervenire in maniera decisa per proteggere i civili quando i governi e le loro forze di sicurezza prendono di mira il loro stesso popolo, a meno che non esista un loro tornaconto, è del tutto inaccettabile. Sia che si tratti del genocidio in Ruanda del 1994, della letale “no fire zone” in cui circoscrivere i tamil nel nord dello Sri Lanka, dove migliaia di civili sono stati uccisi nel 2009, della morte per fame che affligge il popolo nordcoreano o del conflitto siriano, l’inerzia in nome del rispetto per la sovranità di uno stato non ha scusanti.

In definitiva, gli stati sono responsabili dell’affermazione dei diritti delle persone presenti sul loro territorio. Chi ha a cuore la giustizia e i diritti umani non può sostenere che la sovranità al momento sia in alcun modo al servizio di questi principi ma anzi è un ostacolo alla loro realizzazione.

Davvero è arrivato il momento di contestare questo mix deleterio di richiami degli stati alla loro sovranità assoluta e all’interesse per la sicurezza nazionale, più che ai diritti umani e alla sicurezza della popolazione. Non abbiamo più scuse. È ormai ora che la comunità internazionale si faccia avanti e torni a farsi carico del suo dovere di proteggere tutti i cittadini di questo pianeta.

I nostri paesi hanno l’obbligo di rispettare, proteggere e realizzare i nostri diritti. Molti non lo fanno o al massimo lo fanno in maniera incoerente. Nonostante tutti i successi raccolti negli ultimi decenni dal movimento per i diritti umani, dal rilascio di prigionieri  di coscienza alla proibizione a livello globale della tortura e alla creazione della Corte penale internazionale, questa distorsione del concetto di sovranità significa continuare a lasciare indietro milioni di persone.

CUSTODI O SFRUTTATORI
Uno degli esempi più emblematici di questa situazione creatasi negli ultimi decenni è il trattamento riservato alle popolazioni native nel mondo. Un valore fondamentale che accomuna le comunità native in tutto il mondo è il loro rifiuto del concetto di “proprietà” della terra. Al contrario, tradizionalmente s’identificano come custodi del territorio sul quale vivono. Questo rifiuto del concetto di possedere un terreno è stato pagato a caro prezzo. Molte terre abitate dalle popolazioni native si sono rivelate ricche di giacimenti e risorse. Così il governo, che dovrebbe tutelare i loro diritti, si appropria delle loro terre in nome dello “stato sovrano”, poi le vende, le dà in concessione o consente il loro sfruttamento da parte di terzi.

Invece di rispettare il valore delle comunità che sono custodi della terra e delle sue risorse, gli stati e le multinazionali arrivano in queste zone, cacciano con la forza le comunità native e requisiscono la proprietà della terra o i diritti minerari associati a essa.

In Paraguay, i sawhoyamaxa hanno trascorso il 2012 così come hanno trascorso gli ultimi 20 anni: sfollati dalle loro terre ancestrali, malgrado una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani del 2006, che aveva riconosciuto il loro diritto a quelle terre. Più a nord, decine di comunità delle Prime nazioni in Canada hanno continuato a opporsi alla proposta di costruire un oleodotto che collega le sabbie bituminose dell’Alberta alle coste della Columbia Britannica, attraversando le loro terre ancestrali.

In un’epoca in cui i governi dovrebbero imparare dalle comunità native a ripensare il proprio rapporto con le risorse naturali, le popolazioni native di tutto mondo sono sotto assedio.

Ciò che rende tale devastazione particolarmente allarmante è fino a che punto gli stati e le multinazionali ignorano la Dichiarazione universale delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni native, che stabilisce esplicitamente che gli stati debbano assicurare la piena e concreta partecipazione delle popolazioni native in tutte le questioni che le riguardano. Attivisti dei diritti delle popolazioni native rischiano di essere vittime di violenza o persino uccisi, quando cercano di difendere le loro comunità e le loro terre.

Discriminazione, emarginazione e violenza non sono fenomeni limitati alla regione delle Americhe ma riguardano ogni parte del pianeta, dalle Filippine alla Namibia, dove nel 2012 i bambini del popolo san, ovahimba e di altre minoranze etniche hanno incontrato numerosi ostacoli che hanno impedito loro l’accesso all’istruzione. Ciò si è verificato in modo particolare a Opuwo, tra i bambini ovahimba, costretti a tagliarsi i capelli e a non indossare il loro abito tradizionale per poter frequentare la scuola pubblica.

IL FLUSSO DI DENARO E DI PERSONE
La corsa alle risorse è soltanto uno degli aspetti del nostro mondo globalizzato. Un altro è il flusso di capitali attraverso i confini, al di là degli oceani, fino a entrare nelle tasche dei potenti. Certo, la globalizzazione ha portato crescita economica e prosperità per alcuni ma l’esperienza dei nativi resta fuori da questa crescita in quelle comunità, che osservano governi e multinazionali trarre profitto dalla terra su cui vivono e sulla quale muoiono di stenti.

Nell’Africa Subsahariana, ad esempio, nonostante la significativa crescita in molti paesi, milioni e milioni di persone continuano a vivere in condizioni di povertà al limite della sopravvivenza. La corruzione e il flusso di capitali nei paradisi fiscali al di fuori dell’Africa continuano a essere due delle principali motivazioni. La ricchezza mineraria della regione continua ad alimentare affari tra le multinazionali e i politici, da cui entrambi traggono profitto; ma a quale prezzo? La mancanza di trasparenza sugli accordi di concessione e la totale assenza di accertamento delle responsabilità si traducono nell’indebito arricchimento degli azionisti delle multinazionali e dei politici da un lato e dall’altro nella sofferenza di quanti sperimentano lo sfruttamento del loro lavoro, il degrado della loro terra e la violazione dei loro diritti. La giustizia è decisamente fuori dalla loro portata.

Un altro esempio del libero flusso dei capitali è il denaro che i lavoratori migranti in tutto il mondo inviano a casa. Secondo la Banca mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti provenienti dai paesi in via di sviluppo corrispondono al triplo dei fondi internazionali d’assistenza allo sviluppo. E tuttavia, durante l’anno questi stessi lavoratori migranti sono stati spesso lasciati senza una casa e privi di un’adeguata protezione dei loro diritti da parte degli stati ospitanti.

Le agenzie di collocamento per il lavoro in Nepal, ad esempio, nel 2012 hanno continuato a trafficare lavoratori migranti a scopo di sfruttamento e lavoro forzato e hanno addebitato costi superiori ai limiti tariffari imposti dal governo, costringendo i lavoratori a ricorrere a onerosi prestiti a tassi d’interesse elevati. I proprietari delle agenzie hanno ingannato molti migranti circa i termini e le condizioni di lavoro ma queste strutture, che hanno violato la legislazione nepalese, raramente sono state sanzionate. Per fare un esempio, con una legge che difende solo a parole i diritti delle donne, ad agosto il governo ha vietato alle donne al sotto dei 30 anni di migrare per lavorare come domestiche in Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, a causa delle denunce di abusi sessuali ed altri abusi fisici nei suddetti paesi. Ma il divieto ha potenzialmente aumentato il rischio per le donne, costrette a cercare un lavoro attraverso i canali non ufficiali. Ciò che avrebbe dovuto fare il governo era preoccuparsi di garantire loro ambienti di lavoro sicuri.

Una volta che sono partite, gli stati da cui provengono queste persone sostengono di non avere più obblighi nei loro confronti, dal momento che i lavoratori migranti non si trovano più all’interno del loro territorio, mentre gli stati ospitanti sostengono che, poiché non sono loro cittadini, non hanno diritti. Intanto, la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti dei lavoratori migranti e loro familiari, la cui adesione è stata aperta nel 1990, resta uno dei trattati sui diritti umani che ha raccolto meno ratifiche. Nessuno stato ricevente dell’Europa Occidentale ha ratificato la Convenzione. Né lo hanno fatto altri che ospitano moltissimi migranti come Usa, Australia, Canada, India, Sudafrica e gli stati del Golfo.

Questa vulnerabilità assume proporzioni ancor più rilevanti per i rifugiati. I più esposti restano i 12 milioni di apolidi sparsi nel mondo, un numero che equivale alla popolazione di alcune delle maggiori metropoli come Londra, Lagos o Rio. Per circa l’80 per cento si tratta di donne. In assenza della protezione del loro stato “sovrano” queste persone sono veri e propri cittadini del mondo. La loro protezione riguarda tutti noi. Rappresentano la quintessenza della realizzazione del dovere di proteggere. Poiché la protezione dei diritti umani deve essere applicata a tutti gli esseri umani, che si trovino a casa loro o no.

Ora come ora, questa protezione è percepita come subordinata alla sovranità dello stato. Nei campi profughi del Sud Sudan le donne sono stuprate, dall’Australia al Kenya richiedenti asilo sono rinchiusi in centri di detenzione o container metallici, a centinaia muoiono mentre a bordo di barconi fatiscenti cercano disperatamente di raggiungere un porto sicuro.

Durante l’anno, ancora una volta imbarcazioni di africani in difficoltà al largo delle coste italiane sono state allontanate dalla salvezza delle spiagge europee, perché gli stati sostenevano che il controllo dei loro confini era sacrosanto. Il governo australiano ha continuato a interdire in mare le imbarcazioni di rifugiati e migranti. La guardia costiera statunitense ha difeso così la propria prassi: “interdire i migranti in mare significa poterli rimandare rapidamente indietro nei loro paesi d’origine, senza le costose procedure che si rendono invece necessarie quando riescono a entrare negli Stati Uniti”. In ciascuno di questi casi, la sovranità ha avuto la meglio sul diritto degli individui di chiedere asilo.

Ogni anno circa 200 persone muoiono nel tentativo di attraversare il deserto per raggiungere gli Usa, una diretta conseguenza delle misure adottate dal governo statunitense per far sì che i passaggi più sicuri siano del tutto impraticabili per i migranti. Il loro numero è rimasto stabile nonostante una flessione del fenomeno dell’immigrazione.

Questi esempi rappresentano la più atroce rinuncia alla responsabilità di promuovere i diritti umani, compreso il diritto alla vita, e sono in netto contrasto con il libero flusso dei capitali citato in precedenza.

I controlli sull’immigrazione sono in netto contrasto anche con il flusso per lo più indisturbato di armi convenzionali attraverso le frontiere, comprese armi di piccolo calibro e armi leggere. Centinaia di migliaia di persone sono uccise, ferite, stuprate e costrette a fuggire dalle loro abitazioni a causa di questo commercio. Il traffico di armi è inoltre strettamente legato alla discriminazione e alla violenza di genere, che colpisce in maniera sproporzionata le donne. Ciò ha implicazioni di ampia portata sugli sforzi per consolidare la pace, la sicurezza, l’uguaglianza di genere e uno sviluppo sicuro. Gli abusi sono alimentati in parte dalla facilità con cui le armi vengono comprate e vendute, barattate e spedite in giro per il mondo, finendo troppo spesso nelle mani di governi responsabili di abusi e delle loro forze di sicurezza, dei signori della guerra e di bande criminali. Si tratta di un affare redditizio, pari a 70 miliardi di dollari Usa all’anno, e pertanto coloro che hanno interessi consolidati cercano di evitare ogni regolamentazione. Mentre scriviamo questo testo, i governi principali intermediari di armi si apprestano ad avviare colloqui per un trattato sul commercio di armi [poco prima di andare in stampa, il trattato è stato approvato, N.d.C.]. La nostra richiesta è che in presenza di un sostanziale rischio che queste armi saranno impiegate per commettere violazioni del diritto internazionale umanitario o gravi violazioni delle norme sui diritti umani, il loro trasferimento debba essere proibito.

IL FLUSSO DINFORMAZIONI
L’aspetto decisamente positivo che si può trarre da questi esempi, tuttavia, è che noi siamo a conoscenza della loro esistenza. Da mezzo secolo, Amnesty International documenta le violazioni dei diritti umani nel mondo e impiega ogni risorsa a disposizione per cercare di fermare e impedire gli abusi e tutelare i nostri diritti. La comunicazione globalizzata sta creando opportunità un tempo inimmaginabili per i fondatori del moderno movimento per i diritti umani. Ormai governi e multinazionali possono fare ben poco per nascondersi dietro i loro confini “sovrani”.

La velocità con cui le nuove forme di comunicazione prendono piede nella nostra vita lascia senza fiato. Dal 1985, anno in cui fu creato il primo dominio .com, fino a oggi, con due miliardi e mezzo di persone che hanno accesso a Internet, le ruote del cambiamento hanno girato con una velocità straordinaria. Nel 1989, Tim Berners-Lee propose il sistema di ricerca documentale di Internet, nel 1996 nacque Hotmail, i blog comparvero nel 1999 e Wikipedia fu lanciata nel 2001. Nel 2004 arrivò Facebook, seguito da YouTube un anno dopo, quando Internet toccò il suo miliardesimo utente, individuato “statisticamente in una donna di 24 anni di Shanghai”. Il 2006 fu la volta di Twitter e della versione censurata cinese di Google, Gu Ge. Nel 2008 la Cina aveva più persone online degli Usa. E nello stesso anno, alcuni attivisti svilupparono in collaborazione con giornalisti keniani un sito web chiamato Ushahidi, un termine swahili che significa “testimonianza”, inizialmente per tracciare una mappatura della violenza in Kenya dopo le elezioni, e che da allora si è evoluto in una piattaforma utilizzata in tutto il mondo con la missione di “democratizzare l’informazione”.

Viviamo in un mondo in cui le notizie abbondano. Gli attivisti hanno gli strumenti per far sì che le violazioni non siano nascoste. L’informazione crea l’obbligo di agire. Affrontiamo un’epoca cruciale: continueremo ad avere accesso a queste informazioni oppure gli stati in collusione con altri potenti attori le bloccheranno? Amnesty International vuole assicurarsi che tutti abbiano gli strumenti per poter accedere e condividere le informazioni e per contestare il potere e la sovranità, qualora si verifichino abusi. Con Internet, possiamo costruire un modello di cittadinanza globale. Internet fa da contrappunto all’intero concetto di sovranità e di cittadinanza fondata sui diritti.

Il concetto che Martin Luther King Jr espresse con tanta efficacia con le frasi “rete di reciprocità alla quale non si può sfuggire” e “legati a un unico destino”, è stato abbracciato e promosso da molti grandi pensatori e difensori dei diritti prima e dopo di lui. Ma ora è il momento d’instillarlo nel vero “tessuto” del nostro modello internazionale di cittadinanza. Il concetto africano del “Ubuntu” lo esplicita con estrema chiarezza: “Io sono perché noi siamo”.

Si tratta di essere connessi gli uni agli altri, non consentendo che i confini, i muri, i mari, le rappresentazioni dei nemici identificati con “l’altro” inquinino il nostro naturale senso di giustizia e umanità. È così che il mondo digitale ci connette realmente tramite l’informazione.

RAPPRESENTANZA E PARTECIPAZIONE
È semplice. L’apertura del mondo digitale spiana il campo da gioco e consente a molte più persone di accedere alle informazioni di cui hanno bisogno per sfidare i governi e le multinazionali. È uno strumento che incoraggia la trasparenza e l’accertamento delle responsabilità. L’informazione è potere. Internet ha il potenziale di offrire in maniera significativa questo potere ai sette miliardi di persone che popolano il mondo oggi. È uno strumento che ci permette di vedere e documentare e contrastare le violazioni dei diritti umani ovunque stiano accadendo. Ci permette anche di condividere informazioni in modo tale da poter lavorare assieme per risolvere i problemi, promuovere la sicurezza umana e lo sviluppo di ciascun individuo e realizzare così la promessa dei diritti umani.

L’abuso della sovranità dello stato è l’opposto di tutto questo. Riguarda i muri, il controllo delle informazioni e della comunicazione e il nascondersi dietro oscure leggi dello stato e altre rivendicazioni di privilegi. L’argomentazione addotta per sostenere il richiamo alla sovranità è che quello che fa un governo non è interesse di nessuno se non di quel governo e, fintanto che questo agisce all’interno dei propri confini, non può essere contestato. Sono le azioni dei potenti contro chi non ha potere.

La forza e le potenzialità del mondo digitale sono immense. E poiché la tecnologia ha valore neutro, queste potenzialità possono portare sia ad azioni coerenti con la costruzione di società che rispettano i diritti umani sia ad azioni del tutto antitetiche ai diritti umani.

È interessante per Amnesty International, la cui storia nasce dalla difesa della libertà d’espressione, vedere ancora una volta come si comportano i governi quando non sono in grado di controllarla e decidono di manipolare l’accesso all’informazione. Mai questo è stato più evidente che nella persecuzione o vessazione di blogger, dall’Azerbaigian alla Tunisia, da Cuba all’Autorità Palestinese. In Vietnam, ad esempio, i popolari blogger Nguyen Van Hai, conosciuto come Dieu Cay, la blogger di “Giustizia e verità” Ta Phong Tan e Phan Thanh Hai, conosciuto come AnhBaSaiGo, sono stati processati a settembre per aver “fatto propaganda” contro lo stato. Sono stati condannati rispettivamente a 12, 10 e quattro anni di carcere e, una volta rilasciati, dai tre ai cinque anni di arresti domiciliari. Il processo è durato appena poche ore e i loro familiari sono stati vessati e detenuti per impedire loro di parteciparvi. Il procedimento giudiziario a loro carico è stato rinviato per tre volte, l’ultima delle quali perché la madre di Ta Phong Tan era morta dopo essersi data fuoco davanti agli uffici governativi, per protestare contro il trattamento riservato alla figlia.

Ma mandare in carcere persone per aver esercitato la loro libertà d’espressione e aver contestato i detentori del potere utilizzando la tecnologia digitale è soltanto la prima linea di difesa dei governi. Sempre più spesso vediamo stati che cercano di costruire programmi di protezione attorno a qualsiasi sistema di comunicazione o d’informazione. Iran, Cina e Vietnam hanno tutti cercato di costruire un sistema che consentisse loro di riottenere il controllo sia sulle comunicazioni sia sull’accesso alle informazioni disponibili nella sfera digitale.

Ma ciò che potrebbe diventare ancor più preoccupante è il numero di paesi che stanno esplorando mezzi meno ovvi di controllo in quest’area, tramite una massiccia sorveglianza e sempre più sofisticati mezzi di manipolazione dell’accesso alle informazioni. Gli Usa, che continuano a dimostrare una notevole mancanza di rispetto dei parametri di riconoscimento, come evidenziato dagli attacchi con droni effettuati in varie parti del mondo, hanno recentemente proclamato il diritto d’esercitare una sorveglianza su qualsiasi informazione trattenuta nei sistemi cloud di conservazione dei dati, luoghi d’archiviazione digitale non legati a domini territoriali. In pratica, si tratta di controllare informazioni di proprietà di singole persone e di aziende che non hanno sede negli Usa o che non sono cittadini statunitensi.

Questa battaglia sull’accesso all’informazione e sul controllo dei mezzi di comunicazione è soltanto all’inizio. Che cosa può fare la comunità internazionale per dimostrare il suo rispetto per coloro che hanno così coraggiosamente rischiato la loro vita e la loro libertà, mobilitandosi durante le rivolte nella regione del Medio Oriente e dell’Africa del Nord? Che cosa possiamo fare tutti noi per dimostrare la nostra solidarietà a Malala Yousafzai e a tutti gli altri che hanno osato alzarsi in piedi e dire “Basta”?

Possiamo chiedere che gli stati garantiscano a tutte le persone nel loro territorio un significativo accesso al mondo digitale, preferibilmente attraverso un collegamento a Internet ad alta velocità e realmente affidabile, sia che si tratti di un dispositivo portatile, come un cellulare, che di un computer fisso. In tal modo, realizzerebbero uno dei principi dei diritti umani sancito all’art. 15 dell’Icescr: “godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni”. E all’art. 27 della Dichiarazione universale dei diritti umani che afferma: “ognuno ha il diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

Un significativo accesso a Internet certamente si qualifica come partecipazione ai benefici del progresso scientifico.

Molti anni fa, gli stati crearono un servizio postale internazionale, partendo ciascuno da un proprio sistema nazionale ma interconnesso con tutti gli altri servizi postali, realizzando così un sistema postale planetario. Chiunque poteva scrivere una lettera, acquistare un francobollo e spedire questa lettera a qualcun altro, pressoché in qualunque parte del mondo. Dove non esisteva un servizio di consegna porta a porta, c’era un sistema di cassette o di consegna generale che indicava un luogo dove far recapitare la posta.

E quella posta era considerata qualcosa di privato, indipendentemente dai confini che avrebbe attraversato per giungere a destinazione. Questa forma di comunicazione e di condivisione delle informazioni, che può sembrare piuttosto bizzarra nel mondo odierno, cambiò il modo in cui comunicavamo e fu costruita sulla presunzione del diritto alla riservatezza. Ma ancor di più, gli stati s’impegnarono a garantire che tutte le persone avessero accesso a tale servizio. E anche se molti governi indubbiamente utilizzarono il loro accesso alla posta per leggere ciò che era privato, non contestarono il principio del diritto alla riservatezza di queste comunicazioni. In innumerevoli paesi del mondo ciò spalancò la porta alla condivisione delle informazioni e della vita familiare e comunitaria tra le persone.

Oggi, l’accesso a Internet è decisivo per garantire la possibilità di comunicare e anche per assicurare l’accesso alle informazioni. Trasparenza, accesso alle informazioni e possibilità di prendere parte ai dibattiti politici e alle decisioni sono determinanti per costruire una società rispettosa dei diritti.

Poche azioni dei governi possono avere conseguenze tanto positive, immediate, potenti e di ampia portata per i diritti umani.

Ogni governo del mondo deve fare una scelta: considerare questa come una tecnologia dal valore neutro e servirsene per rivendicare il proprio potere sugli altri o utilizzarla per concretizzare e promuovere la libertà degli individui. L’avvento di Internet e la sua diffusione planetaria, attraverso i telefoni cellulari, gli Internet café, i computer accessibili nelle scuole, nelle biblioteche pubbliche, sui luoghi di lavoro e nelle case, hanno creato un’enorme opportunità di dare alle persone gli strumenti per rivendicare i loro diritti.

LA SCELTA PER IL FUTURO
Gli stati hanno la possibilità di cogliere questo momento per assicurare che tutta la loro popolazione abbia un reale accesso a Internet. Possono garantire che le persone siano in grado di connettersi alla rete a costi accessibili. Possono inoltre sostenere la creazione di molti altri luoghi d’incontro, come biblioteche e café, dove le persone possano accedere a Internet in maniera gratuita o a tariffe convenienti.

Di certo, gli stati possono garantire che le donne, soltanto il 37 per cento delle quali ha attualmente accesso alla rete, possano partecipare attivamente a questo sistema d’informazione e pertanto alle azioni e alle decisioni che vengono prese nel mondo in cui vivono. Come precisa un nuovo rapporto pubblicato dall’agenzia Un Women, da Intel e dal Dipartimento di stato americano, esiste un enorme divario di genere che riguarda Internet, in paesi come India, Messico e Uganda.

Il che significa che gli stati devono creare dei sistemi che permettano di connettersi alla rete in casa, a scuola e sul luogo di lavoro, in quanto punti d’accesso come gli Internet café sono impraticabili per quelle donne che non possono uscire di casa per motivi religiosi e culturali.

Gli stati possono inoltre lavorare per sradicare la discriminazione sociale contro le donne e gli stereotipi negativi che le riguardano. Una donna indiana con una laurea in ingegneria ha raccontato agli autori del rapporto che le era stato vietato l’uso del computer “per paura che se lo avesse toccato, qualcosa avrebbe potuto non funzionare più”. Un altro resoconto ha evidenziato come alcuni mariti vietino alle loro mogli di utilizzare il computer della famiglia, per timore che vedano contenuti sessuali inappropriati. È proprio questa la motivazione addotta in Azerbaigian, per cui soltanto il 14 per cento delle donne possono connettersi alla rete, a fronte del 70 per cento degli uomini.

Riconoscendo il diritto delle persone di accedere a Internet, gli stati possono adempiere ai loro doveri riguardo alla libertà d’espressione e al diritto all’informazione. Ma devono farlo rispettando il diritto alla riservatezza.

Fallire in questo significa creare due categorie di persone, sia a livello nazionale che globale: quelle che hanno accesso agli strumenti di cui necessitano per far valere i loro diritti e quelle che rimangono indietro.

Ciò che ci dà speranza è il sostegno e la solidarietà della gente comune. La gente rappresenta l’unico slancio per il cambiamento. I governi non faranno nulla se non sono pressati dalla gente… la quantità di messaggi che ho ricevuto (dagli attivisti di Amnesty International) mi ha dato davvero tanta speranza, malgrado tutte le difficoltà.

[Azza Hilal Ahmad Suleiman, egiziana aggredita vicino a piazza Tahrir]

Conoscenza, informazione e possibilità di parlare significano potere. Gli stati che rispettano i diritti non temono questo potere. Gli stati che rispettano i diritti promuovono la capacità di agire. E la natura priva di confini della sfera digitale comporta che tutti noi possiamo provare a esercitare la nostra cittadinanza globale, utilizzando questi strumenti per promuovere il rispetto dei diritti umani nei piccoli luoghi vicino a casa, come in solidarietà con le persone che vivono lontano da noi.

Le forme tradizionali di solidarietà possono avere un impatto ancor più forte quando diventano “virali”. Prendiamo ad esempio le 12 persone per le quali si sono impegnati migliaia di attivisti in occasione della 10ª maratona mondiale “Write for Rights”, una campagna di Amnesty International svoltasi a dicembre. Si tratta del più grande evento mondiale a favore dei diritti umani degli ultimi anni, che ha raccolto due milioni di adesioni tramite l’invio di email, petizioni online, messaggi sms, fax e tweet, per esprimere solidarietà, fornire sostegno e contribuire al rilascio di persone che erano state incarcerate a causa delle loro convinzioni.

Come Amnesty International, vediamo in Internet quella radicale promessa e quelle possibilità che il nostro fondatore Peter Benenson intravide più di 50 anni fa, ovvero che persone diverse al di là dei confini, possano lavorare assieme per chiedere libertà e diritti per tutti. Il suo sogno fu liquidato come una delle più grandi follie della nostra epoca. Molti ex prigionieri di coscienza devono la loro libertà e la loro vita a quel sogno. Ci troviamo ora a un punto cruciale per creare e realizzare un altro sogno, che alcuni liquideranno come una pazzia. Ma oggi, Amnesty International abbraccia questa sfida e chiede agli stati di riconoscere che il nostro mondo è cambiato e di creare quegli strumenti in grado dare nuove possibilità a tutte le persone.


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