Rashōmon, di Akira Kurosawa, Giappone, 1950, 88 minuti (b/n)
Le fotografie del passato ci vengono spesso presentate
come una rappresentazione fedele della storia;
sembrano avere fermato per sempre un mondo che non c’è più. [1]
La scena si svolge, a processo finito, in perfetta e aristotelica unità di tempo e spazio. Interrotti solo dai continui flashback, davanti alla porta muraria (rashōmon, dal giapponese antico) i racconti del monaco e del taglialegna vengono offerti alla curiosità di un personaggio estraneo ai fatti (e dunque a noi, che guardiamo il film), un popolano cinico e indurito dalle asprezze della vita. Al riparo dalla pioggia battente, l’orrore e l’afflizione per la caducità umana si trasformano in disperazione e ossessione per la verità. Tutti sanno che alle orecchie del giudice non è arrivato che un groviglio di menzogne, declinate secondo ruoli e paure che ognuno si porta dietro.
Quest’ossatura è il risultato di un’abile composizione meta-narrativa che ha fatto di Akira Kurosawa (1910-1998) un regista ammirato in tutto il mondo. La materia prima narrativa è presa infatti da due diversi racconti di Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927): Rashōmon (1915) fornisce l’ambientazione iniziale su cui s’innesta il (meta)racconto dell’omicidio e del processo, preso da Nel bosco (1922). Il film, Leone d’Oro a Venezia nel 1951, non ci dice chi è il colpevole, non ne ha bisogno. Il giudice è una figura oltre-umana e austera di cui non sentiamo mai la voce, la sentenza. A parlare sono i testimoni, unici strumenti investigativi possibili all’altezza del XI secolo. Ma i fatti nudi e crudi come strumenti di verità, idolatria e ossessione iper-moderna, lasciano spazio alla (post?)moderna relatività delle sue versioni.
Non è un problema di colpevoli. Di assassini, ce ne sono fin troppi. Il brigante e la dama ammettono entrambi di aver commesso il misfatto, pur descrivendolo come inevitabile o fortuito. Il samurai stesso si dichiara suicida, ascoltato come teste anch’egli per mezzo dell’unica altra figura femminile, una maga. Tace il boscaiolo, unico occhio esterno, distaccato, neutrale; unico depositario della verità dei fatti, oggettiva, perfetta per innescare il dispositivo di annullamento e riassorbimento dell’anomalia folle dell’omicida.
Ogni epoca ha i suoi strumenti investigativi e le sue fonti di verità. Non stupisce che la maga faccia parlare il morto e salvi il suo onore di guerriero sconfitto. Non stupisce l’invisibilità della donna, considerata un bel fiore da proteggere o cogliere e che, una volta sciupato, si può buttare via. Non stupisce che il boscaiolo taccia quello che ha visto, per coprirsi con la foglia di fico. Non c’è dubbio che se Akutagawa avesse ambientato Nel bosco oggi, avrebbe attribuito il ruolo-cardine del taglialegna “neutrale” alla fotografia e al video. La verità ferma o in movimento, di cui non si può dubitare, da cui si ricava l’esattezza matematica delle responsabilità personali.
Ma l’esigenza di menzogna e la speculare ossessione di verità restano vive nello sguardo insonne del boscaiolo che nasconde il furto di un pugnale prezioso, di cui forse non sarà nemmeno capace di disfarsi. È questa la sua verità, diversa e non ri-con-ducibile a nessun’altra.
La vita umana è più effimera della rugiada di primo mattino. (Monaco, 12’59’’)
Puoi trovare il film su YouTube o Archive.org.
Leggi anche:
- Basilio Fadda, Riscrivere la memoria: foibe, media e revisionismo storico
- Piero Grandesso, Diaz. Don’t clean up this blood
- La strage di Ustica, Vanloon n. 12
- Wu Ming, Tu che straparli di Carlo Giuliani, conosci l’orrore di Piazza Alimonda?
- Web Scuola, sito di divulgazione storico-pedagogica, URL: <http://web.archive.org/web/20021201184421/http://webscuola.tin.it/risorse/storia/sommario/fotografia/1/index.htm>, cit. in Serge Noiret, “Public History” e “Storia pubblica” nella rete, in Francesco Mineccia e Luigi Tomassini (cur.), in «Ricerche storiche», Media e storia, n. 2-3/2009, p. 322. Versione digitale su Academia.edu (necessaria registrazione).↵
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