Durante i primissimi anni delle superiori, complice la mia passione per i manga e gli anime, ero diventato un vero e proprio jappominkia. Ovvero uno di quelli per cui il Giappone è la terra più bella di tutte e i giapponesi sono le persone migliori che esistano, ignorando che sono un popolo complessato per il millennio culturale che hanno steppato in pochi secoli e responsabili di quella simpatica cosa che è stato il massacro di Nanchino. Un periodo di cui non mi vanto molto ma che in qualche modo mi è servito, perché se da una parte mi ha fatto conoscere dei fumettisti grandiosi dall'altra mi ha permesso di apprendere qualcosa della cultura nipponica che altrimenti avrei ignorato. Akira Kurosawa lo conoscevo già da prima, grazie alle cassette che davano in omaggio con l'Unità, che mio padre comprava sempre, ma proprio in quel periodo avevo voluto approfondire la visione di quello che era il regista cult della terra che tanto amavo, anche se platonicamente. E dato che col mio periodo jappominkia è coinciso il massimo atteggiamento snobistico della mia vita nei confronti della settima arte, avevo voluto vedermi i film del Tenno in bianco e nero, perché vedersi film vecchi fa sentire davvero molto intelligenti. Fra questi film c'era anche questo Rashomon - o Rasciomon, stando ai distributori italiani dell'epoca - film che non ho mai citato molto spesso ma che ho sempre ritenuto un vero e proprio capolavoro.
Periodo Heian (794 - 1195). Durante una giornata di pioggia un boscaiolo, un monaco e un contadino trovano riparo comune e iniziano a parlare di un tragico fatto avvenuto poco tempo prima: quello dell'assassinio di un samurai e dello stupro della sua moglie per mano del brigante Tajomaru. A rendere oscuro quel fatto sta che ogni versione riportata (anche quella del samurai defunto, ottenuta tramite un medium) differisce dalle altre, rendendo così la verità sempre più nebulosa e lontana...
La parola Rashomon [
羅生門], tradotta letteralmente, significa La porta nelle mura difensive, e sta a indicare uno dei due principali accessi della città di Kyoto - l'allora capitale del Giappone e nominata Heian-kyo. E' quindi una breccia che permette l'accesso alla città più importante del paese e, in quanto tale, riveste un'importanza fondamentale, oltre che simbolica. Ma il simbolismo è un qualcosa di insito in ogni aspetto della cultura giapponese, quindi non c'è da stupirsi che nel lontano 1950 sia stato realizzato un film strano, bellissimo e particolare come questo, che trae origine da due racconti (l'omonimo Rashomon e Nel bosco) di Ryunosuke Akutagawa. Qui la figura della porta, e la sua funzione di passaggio, non è stata scelta a caso, così come il fatto di indicare l'entrata della capitale. Le mura difensive dovrebbero proteggere dalle insidie del mondo esterno, eppure è dentro il cuore stesso della città che si annidano briganti e bugie, dando così un ritratto dell'umanità profondamente negativo e spiazzante. Rashomon è un racconto che è ben conscio della potenza del racconto stesso, quindi è per questo che al suo interno si possono vedere ben tre storie, che rappresentano le diverse versioni della vicenda fornite dai diretti interessati. Ma allora perché tutte sono diverse fra loro? Forse ci si può aspettare che un brigante menta (a proposito, Toshiro Mifune è iconico come sempre), ma perché dovrebbero farlo anche le vittime delle sue azioni? Non ci sarà risposta, così come non ci sarà verità. O almeno, la verità non viene mai esplicata, ma suggerita. Perché sotto sotto tutti noi la conosciamo, a nostro modo, solo che ci dà fastidio dirla ad alta voce. E nemmeno il geniale regista nipponico lo fa, proprio per accompagnarci come ospite silenzioso nel nostro mutismo, pur spiattellandoci in faccia la realtà della nostra condizione. Kurosawa, come ha già dimostrato negli altri suoi film, non ha una grande opinione del genere umano, e qui sembra addirittura voler calcare la mano su questo sinistro concetto mettendo alla berlina non solo i vivi, ma anche i morti, perché anche la scena del medium, la trovata più geniale di tutte, sembra voler raccontarci che nemmeno da morti si raggiungerà quell'ideale di purezza e lealtà che si va tanti professando. L'uomo è malvagio e bugiardo e continuerà ad esserlo in ogni stadio della sua esistenza, perché questa è la sua natura. Come ad avvalere questa teoria, Kurosawa decide di mettere per immagini tutte e tre le varianti, quasi fossero delle verità oggettive e inconfutabili, tutte false e, di conseguenza, riconducibili al mezzo cinema, che è la bugia più grossa di tutte proprio perché deve mettere in scena delle cose che sono nate dall'immaginazione di un regista o di uno sceneggiatore, e che pertanto possono essere definite inesistenti. L'unica parvenza di realtà la si ottiene verso la fine, quando si scopre che uno dei tre personaggi che si stanno riparando dalla pioggia è in qualche modo coinvolto in quel processo, e infatti l'unica prova di tutto ciò la si ha con l'unica immagine che si può definire reale, quella che vede il presente con la prova delle sue azioni, mentre il resto viene raccontato a voce. E sarà proprio in quel momento, quando l'umanità ne esce più sconfitta che mai, che proprio dal più colpevole dei tre ci sarà il grande atto di riscossa finale. Un'azione semplice, che in altre mani sarebbe potuta apparire quasi retorica, ma che in quel contesto assume la leggerezza e il buon gusto che solo i grandi narratori riescono a conferire. E' un finale che dopo tutto quel disgusto che si è visto riesce a dare una flebile speranza circa un'umanità che non merita (o non vuole) riscatto. Persino nel Paradiso si è scoperto che albergava il male, e il bene non può esistere senza il proprio contrario, come la verità non ha senso se non esistesse la menzogna. E intanto la porta difensiva continua a rimanere chiusa, per impedire che i mali esterni, forse già esistenti e più interni che mai, entrino nel nostro piccolo paradiso che abbiamo saputo crearci. Ma ogni tanto, se la si socchiude un attimo, può darsi che qualcosa di buono riesca a fare capolino. Basta solo sperare e stare in guardia.Un capolavoro senza tempo che, nonostante i sei decenni che si porta sulla groppa, mantiene intatta tutta la propria potenza.Voto: ★★★★★