Rasputin, l’omicidio del diavolo. Parte I

Creato il 14 febbraio 2013 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Rasputin viene ricordato come il diavolo contadino che mise in ginocchio la Russia. Negli ultimi giorni della sua vita aveva già lo sguardo sfuggente del lupo che presagisce la morte. Poco prima del 19 dicembre 1916 (secondo il calendario giuliano, mentre per quello gregoriano, entrato in vigore in Russia nel 1918, dobbiamo spostare la data avanti di tredici giorni) i suoi assassini si riunirono nel vagone del treno-ospedale di uno di loro, il politico e medico Puriškevič. Qui egli consegnò nelle mani di Feliks Jusupov il cianuro di potassio con cui avvelenare l’oscuro consigliere della famiglia imperiale. Il veleno era sia in cristalli che diluito in fialetta: contavano di somministrarglielo nel cibo e nelle bevande. Il principe Feliks Jusupov era bello, giovane e senza scrupoli. Aveva già fatto parlare di sé per l’ambiguità sessuale e la dissolutezza dei costumi manifestate durante la propria adolescenza. Grigorji Rasputin era un monaco sciamano convinto che l’amore per Dio, per il creato e per l’umanità potesse – e dovesse – passare per la carne. L’amicizia con Feliks, il “Piccolo” Jusupov, decretò la sua fine. Il principe, il medico Puriškevič e il granduca Dimitrij Pavlovič organizzarono la trappola al seminterrato della casa di Jusupov. Si riunirono a mezzanotte e predisposero l’omicidio entro mezzanotte e mezzo. Sistemarono la sala come se ci fosse stata una piccola festa, presero il tè e sporcarono i piatti. Sciolsero la fialetta di cianuro di potassio in due calici di vino scelti con cura dal principe e disposero una scatola di pasticcini alla crema rosa e al cioccolato sulla tavola, nei colori che richiamassero quelli della tappezzeria. Farcirono con i cristalli – di molto più letali della fiala – solo i dolcetti rosa, lasciando intonsi quelli al cioccolato. La predisposizione dell’arredamento, la stanza seminterrata e il modus operandi ricordarono poi agli storici l’omicidio della famiglia imperiale nella casa in Siberia di Ipat’ev. Come se l’assassinio di Rasputin fosse stato una sorta di prova generale per quello dei Romanov. Il grammofono quella notte suonava Yankee Doodle: una canzone che Puriškevič non avrebbe dimenticato fino alla morte. L’omicidio del diavolo contadino di Russia si sarebbe scolpito nella memoria di tutti.

Rasputin fu felice di accettare l’invito del “Piccolo” Jusupov. Il principe raccontò al contadino che la moglie Irina dava una festa al piano di sopra – Yankee Doodle riempiva la casa e nascondeva i rumori – e che l’avrebbero raggiunta una volta che gli ospiti se ne fossero andati. Intanto avrebbero potuto accomodarsi nel seminterrato, loro due soli. Mangiarono e bevve-ro, mentre il granduca Pavlovič e Puriškevič attendevano al piano di sopra, armati per qualunque evenienza. Jusupov mangiò i pasticcini, scegliendo accuratamente tra quelli al cioccolato, e ne offrì al monaco. Bevvero insieme il vino. Tuttavia, Rasputin non dava segni di cedimento. Il monaco chiese al principe di cantare per lui e per tutta l’esibizione bevve dal proprio calice. Eppure non moriva. Il giovane Jusupov entrò nel panico. Si sottrasse alla presenza di Rasputin con la scusa di andare a vedere quando sarebbe finalmente scesa Irina. Invece corse a consultarsi con i complici e scese armato di rivoltella. Il monaco era intelligente e acuto. Dimostrò sempre di avere una percezione degli eventi così precisa da sembrare sovrannaturale. Eppure quella notte non si accorse che Jusupov era armato. O finse di non accorgersene. Il principe gli sparò e il monaco cadde riverso a terra su una pelle d’orso.

Ma non morì.

Pochi istanti dopo, mentre i tre assassini lo circondavano e lo spogliavano per bruciargli i vestiti, si aggrappò al “Piccolo” principe, invocando aiuto. Jusupov lo percosse con una mazza con tanta ferocia che Puriškevičh dovette trascinarlo via. Eppure, Rasputin respirava ancora. Il contadino diavolo non riusciva a morire. Si alzò, cercò di scappare. Dimitrij Pavlovič gli sparò nel cortile, prima che potesse raggiungere il cancello. Yankee Doodle suonava ancora dall’interno. Grigorij Rasputin era ancora vivo quando lo gettarono nelle acque della Neva attraverso un foro praticato sul ghiaccio. Le autorità recuperarono dalle acque gelide il cadavere seminudo e lo trovarono congelato, le unghie spaccate e le braccia ripiegate di chi cercava di rompere la barriera di ghiaccio e salire dal fiume. Sembrò a tutti che ci avesse messo un po’ a morire annegato. Questa è la versione che lo stesso Jusupov rilasciò alle stampe – e dalle quali venne tratto il film Rasputin e l’Imperatrice del 1932 – una volta fuggito dalla Russia: tanti sono gli elementi oscuri e il mistero che grava su questa versione dei fatti.

Che ormai è diventata mito.

Scilla Bonfiglioli



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