Poliziotti, serial killer e registi: ecco come nasce una serie televisiva
(di Maurizio Caverzan – Il Giornale) In un’armeria di Glendale, sobborgo della Città degli angeli, si è appena consumata una strage: cinque morti, quattro clienti più il negoziante. A provocarla è stata una donna che, in preda a un raptus di follia, ha rivolto contro di loro la P38 che l’armiere le stava vendendo. Naturalmente, dietro la strage c’è una complessa storia di dolore che toccherà alla squadra di profiler dell’Fbi districare.
Difatti, dal Chevrolet nero blindato scendono David Rossi (Joe Mantegna) e Aaron Hotchner (Thomas Gibson), supervisore e capo dell’Unità di analisi comportamentale di Quantico, Virginia. Siamo sul set di Criminal Minds dove si sta girando l’episodio 20 della sesta stagione che in Italia vedremo su FoxCrime, dove la serie registra una media di 358mila telespettatori, quarta in assoluto tra quelle trasmesse da Sky. Anche la storia della strage dell’armeria, come tutte le altre, richiede un mese di lavoro: sette giorni per la scrittura, otto per le riprese e una quindicina per la post-produzione. Ma in parallelo vengono girati sempre tre episodi.
Alla Cbs e alla Fox c’è il meglio dell’industria dell’immaginario in circolazione. E se ormai i telefilm hanno superato per qualità narrativa e contemporaneità anche il cinema di Hollywood qualche motivo ci sarà. Sceneggiatura e doti autoriali si sposano con il background delle major e la disponibilità dello «star system», sempre più coinvolto nella fiction. «Tra cinema e televisione non c’è alcuna differenza – garantisce Mantegna, 63 anni, oltre una trentina di film in carriera -. Io ci metto la stessa passione».
La scena con i due agenti che scendono dal blindato dell’Fbi e entrano nel negozio con lo sceriffo viene ripresa dalla «steadycam» mentre sull’Avenue che costeggia l’affollato set il traffico scorre senza intoppi. Gli altri agenti sono rimasti al Dipartimento, ma nessuno dubita che l’apporto alle indagini di Spencer Reid, genio un po’ asociale della squadra (Matthew Gray Gubler), di Penelope Garcia, eccentrica esperta d’informatica (Kirsten Vangsness) o di Derek Morgan, sanguigno agente nero (Shemar Moore) sarà fondamentale. L’armonia regna nel team specializzato nella definizione delle menti criminali e, come dice Gibson, «il segreto della serie nella psicologia e nella volontà di capire quando nei nostri cervelli capita qualcosa. Anche se – ammette l’interprete del capo dell’Unità – a volte dobbiamo semplificare la strada per arrivare alla soluzione del caso in quarantadue minuti».
Secondo Ed Bernero però, autore della serie e creatore dello spin off Suspect Behavior che sulla Cbs ha appena conquistato 13 milioni di telespettatori, la forza del genere «crime» è proprio il fatto che «in quarantadue minuti si risolva il caso». In Italia una certa morbosità per la cronaca nera fa alzare gli ascolti di molti programmi: anche in America il successo delle serie investigative è determinato da questa curiosità? «Più che alle perversioni criminali, gli Americani sono interessati a vedere una squadra di agenti arrivare sulla scena del crimine, che risolve il caso mettendo a posto le cose». Insomma, nei telefilm Usa tira un’aria di fiducia nelle forze di polizia e di risposte positive più che di pernicioso spettacolo del male. Una filosofia che ha conquistato anche testimonial importanti dello star system. Come in Criminal Minds, anche qui il protagonista è un capo di «profiler» che ha il carisma di Forest Withaker, premio Oscar nel 2006 per L’Ultimo Re di Scozia. Insomma, l’evoluzione continua e il prodotto si fa più sofisticato. Nei nuovi polizieschi, più vicini all’antropologia di Barack Obama, balza in primo piano il fattore umano, la vita privata e i caratteri dei protagonisti. In Suspect Behavior questo aspetto è ancora più accentuato. La Red Cell, per esempio, è specializzata nell’usare vie alternative saltando la burocrazia per risolvere in fretta i casi. Niente fronzoli, niente cedimenti al glamour e più normalità: quelli dello spin off non hanno divise, si spostano usando aerei di linea, entrano dalle porte secondarie. Ciò che conta è il risultato. Agli Americani piace così.
Joe Mantegna “Ora anche l’Fbi ci ringrazia”
(di Michela Tamburrino – La Stampa) Lui, Joe Mantegna, è la star di Criminal Minds a sua volta la star delle serie poliziesche, arrivata trionfalmente alla sua sesta edizione, in onda su Fox Crime (Canale 117 di Sky). Tanto è il successo di questo poliziesco che, di record in record, ha toccato la soglia dei 400 mila spettatori a puntata. «Serie di questa qualità – sottolinea Paolo Agostinelli, direttore Canali Terzi Sky – sono tra i motivi dell’affezione dei nostri abbonati. Ne offriamo 316 nuove ogni anno».
Ottima compagnia per Joe, tipo disponibile che si racconta con estrema facilità, mezzo nell’italiano tipico degli oriundi, mezzo a gesti quando sono gli occhi e il sorriso il suo mezzo più potente. Siamo sul set di una puntata tipo di Criminal Minds. Lui David Rossi, fondatore dell’unità, è con Aaron Hotchner, che la dirige, interpretato da un Thomas Gibson in gran forma. Il fatto di ripetere la stessa scena impegnativa che lo vede scendere da una macchina ed entrare in un negozio di armi dove si è appena consumato un duplice delitto, non lo stanca. E allora parte a raffica: «Gran parte della mia famiglia è italiana. Mio cugino Nicola ha un agriturismo in Puglia, io ho l’Italia nel cuore, nelle vene, nella mente. Pensate che quando mi hanno proposto il ruolo ho preteso il nome di un italoamericano. E mi sono ispirato al vero David Rossi, grande poliziotto che raccolse il grido d’aiuto della moglie di O. J. Simpson. In quel processo-circo non cedette. Quindici anni dopo mi è venuto a trovare sul set con suo figlio. Tre generazioni di Rossi. Che emozione».
Joe parla anche della moglie che cucina benissimo e che gli ha insegnato a preparare un’ottima parmigiana oltre ad aiutarlo nell’avventura del ristorante a Chicago e delle sue figlie, Gea e Mia, una attrice, l’altra che studia da visagista: «È autistica, una ragazza splendida. Avrebbe 23 anni ma è come se ne avesse 12». E lo dice con un amore che riscalda il cuore. Ma l’altro amore, per l’Italia, permane anche di questi tempi? Ride «Alludete a Berlusconi? È vecchio vecchio, i politici passano ma l’Italia resta». In fondo, come dice il suo amico Gibson il «Banga banga» come l’hanno inglesizzato da queste parti, avrebbe potuto avere un padrino anche in America, paese enorme. Perché no?
Gibson, che condivide la scena della macchina-marciapiede-negozio, non crede che si possa conoscere un paese attraverso le sue serie: «Impossibile descrivere la parabola di gente che fino a poco tempo fa aveva il debito più alto del mondo in carte di credito e oggi è dedita al risparmio più assoluto». Però, gli fa eco Mantegna, «con Criminal Minds aiutiamo a far luce su una categoria importante come quella degli investigatori. E loro, gli agenti dell’Fbi, ci sono grati». «Mi ha detto un ex uomo della Cia – rivela però Gibson – che non siamo più sicuri in assoluto. Non lo eravamo con Bush e non lo siamo con Obama». In tanta insicurezza resta una certezza incrollabile: il 29 aprile Mantegna riceverà il grande onore di vedere la sua stella sul Walks of Fame. A traghettarlo verso la fama imperitura, il suo regista più amato, Woody Allen, che lo diresse in Celebrities e in Alice. «Woody è di poche parole – dice Mantegna – ma ha scritto per me una lettera di presentazione, necessaria per ottenere la stella, meravigliosa!. Poi non l’ho più sentito». A chi dedica questo riconoscimento? «A tutti quegli attori che hanno il mio stesso talento ma che non ce l’hanno fatta. Sono stato fortunato e non voglio mai dimenticarlo».
RASSEGNA STAMPA/ Sul set di “Criminal Minds” con Joe Mantegna
Creato il 04 marzo 2011 da IltelevisionarioPotrebbero interessarti anche :
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