Il Raut è una delle più alte montagne della catena prealpina della provincia di Pordenone. Il suo nome, in friulano, significa rododendro.
Ogni mattina, sui vetri anneriti da calcare e da diesel, gli occhi di Andrea si specchiano sulla sagoma del Raut.
Un riverbero appena percettibile dentro un profilo scuro che l’alba diluisce con calma.
Non mi è mai riuscito di capire che cosa rappresenti il Raut per Andrea ma credo che quel bastione visto da dietro i finestrini della corriera, lo spartitraffico fra la Valcellina e la Val Meduna abbracciato dalle linee di faglia più attive del Friuli, il Nord visto dal terrazzo di casa nostra, stia ad Andrea come la Manera sta a me.
La montagna dell’anima. Quella alla quale volgere il primo sguardo, prima ancora di scrutare il cielo e vaticinare sul tempo e su quale verso piegherà tua giornata dopo aver posato la tazza del caffè.
Andiamo in Raut, ma ci andiamo da nord, dal Lago di Ca’ Selva, perché ci vogliamo dedicare a lui in raccolta solitudine e perché io voglio vedere le pareti rocciose del Basson.
Garibaldini, animali selvatici, transumanti e animali mistici retaggio di narrazioni intorno al fuoco, han calcato questi luoghi e sorvolato questi cieli.
Cominciamo a risalire il Sarazin sulla strada forestale mentre qualche fiammella d’alba si fa intravvedere fra gli alberi. Dopo quasi un’ora, in prossimità di un tornante della strada che, curva dopo curva, s’è trasformata in un vivaio di faggi, cominciamo a risalire il bosco con il sentiero 967. Ciuccui, si chiama questo posto.
Subito il tracciato si stacca, verticale, per poi ricominciare a guadagnare quota con più calma. Quando raggiungiamo una zona del bosco in piano, questo si squarcia svelando una conca erbosa e alberelli scampati malamente ai fulmini.
Ora ci ritroviamo in un campo dal terreno irregolare. Dietro di noi il bosco e davanti solo pareti verticali del rosa del primo sole. Un rettangolo di cielo di un azzurro assonnato, rimane ingabbiato fra alberi e rocce. Ci giriamo attorno, e così avvitandoci, una, due volte, diamo il primo moto al vortice.
Dalle pareti si stacca una figura. Disegna un cerchio e poi un altro sopra le nostre teste e si riposa.
Io ed Andrea ci guardiamo senza parlare. Un indice punta verso le rocce, laddove il volo s’è interrotto. Aspettiamo.
Sembra? È lei.
Aspettiamo finché la regina non riprende il suo sama estatico. L’aquila si lascia ammirare a lungo e volteggio dopo volteggio, la nostra testa comincia a girare così cadiamo giù a spirale, inghiottiti nell’era delle felci giganti.
Risbuchiamo confusi in quel prato quasi circolare dove una volta deve esserci stata una casera, un pascolo al limitare del bosco e alla fine del lunghissimo impluvio che aspetta i nostri passi. Facendoci largo fra felci, erba alta e le radici affioranti, iniziamo a salire, entrando e uscendo, per brevi tratti, dal bosco abbandonato. Da decenni.
Pacifici mammut ci guardano passare. Rocce ricoperte di muschio e dalle lunghe zanne. Tronchi curvi di abeti spogli vivono trattenendosi a una manciata di terra e lottando ogni inverno con la neve. Some di un carico che abbandonerà il versante sempre all’ombra solo a tarda primavera, crescono ad arco.
Usiamo quelle loro zanne per issarci sulle rocce bagnate, insidiose, coperte di muschio e terra che nascondono buche e marciume. Procediamo più lentamente di quando avessimo calcolato: ci vuole attenzione.
Raggiungiamo le rocce alla base del Crinal del Basson che si staglia verticale alla nostra sinistra e proseguiamo guadagnando quota senza strappi. Una figura ci viene incontro. Ci si ferma a chiacchierare, tenendoci in equilibrio sulla metà dello scarpone destro sullo stretto tracciato. È Zeffirino Doimo che ride e si schernisce al nostro stupore di vederlo già sulla via del rientro: lo avevamo incrociato mentre salivamo per parcheggiare la macchina.
“È che io vado lento” mente “ma che ci fate su questo versante?” chiede, e ci racconta che da quel lungo sentiero salgono, forse, otto persone all’anno, che non è battuto, che è sconsigliato e che noi saremo, sicuramente, il settimo e l’ottava. Salutiamo. Abbiamo guadagnato 1000 metri da quando siamo partiti e ce ne aspettano ancora quei 400 che ora, con tutta probabilità, cominceranno a farsi sentire. La vegetazione smette al limite della pietraia che, anche se instabile, si rivela meno insidiosa del tratto precedente. Non più abbrancati da ogni dove da arbusti, erbe e alberelli, acceleriamo il passo.
La vediamo Forcella Capra. È proprio sopra di noi e la croce tinta di rosso della sommità appare e scompare fra le nuvole montate a neve alla nostra destra.
Arriviamo sulla cresta dell’afflittissima falce di luna crescente che guarda verso la pianura pordenonese. Una sbirciata giù, verso il nulla. Dalla via normale che sale da Pala Barzana sale una coppia che lasciamo ci preceda. La foschia ci avvolge ma a tratti sembra rarefarsi. È tardi, bisogna rassegnarsi: non possiamo più sperare di vedere il panorama della pianura. Nonostante la nostra levata mattutina, l’avvicinamento ci ha impegnato quasi cinque ore e oramai batterà mezzogiorno.
La breve ferrata di cresta
Mentre iniziamo a salire gli ultimi 200 metri di cresta, disperiamo di riuscire a vedere anche solo la croce. Forse ci sbatteremo sopra.
Camminiamo distanti, sapendo che quel lago d’albume sotto i nostri piedi nasconde un salto di mille metri in perfetta verticalità. Il tratto attrezzato il cavo d’acciaio ci fa passare con sicurezza un dislivello e raggiungiamo senza grosso impegno la croce. Ci buttiamo a sedere con gli scarponi che ciondolano giù nel nulla e veniamo graziati da un insperato squarcio d’azzurro. Il sole è caldo e mi infiamma presto il viso. È piacevole stendersi a prendere il sole facendo a gara a riconoscere le cime delle montagne che galleggiano nelle nuvole. L’iceberg più facilmente riconoscibile è il Duranno. Ma si riconoscono bene anche il Monte Cavallo e il Cimon dei Furlani, Crep Nudo, il Teverone e il Col Nudo, tutta la dorsale del Resettum e per un attimo sembra spuntare l’Antelao, ma forse no. A est, invece, la visuale è del tutto preclusa.
Bandierine (fotografia di Andrea Gaspardo)
Facciamo chiacchiere con la coppia che ci ha preceduto e ci dimentichiamo di far una foto in vetta e di firmare il libro. Ce ne andiamo presto: ci aspetta una discesa che impegnerà un bel po’ di attenzione su alcuni tratti e non vogliamo arrivarci troppo stanchi.
Dorsale del Raut
La discesa si rivelerà meno faticosa di quanto temessimo, il dislivello è regolare e non impone grosso carico alle ginocchia, è molto lunga, ma procediamo spediti e in meno di un’ora siamo già al prato della vecchia casera oramai scomparsa sotto i muschi e le erbe. Ci fermiamo in quel prato magico storditi dall’altitudine e dalla corsa, sputati fuori dall’era preistorica delle dolomie noriche. Ma il prato magico ci gioca l’ultimo scherzo e non vuol lasciarci andare via: non troviamo la traccia per imboccare il sentiero che si inoltra nel bosco. Un mazzo di funghi gelatinosi, che avevo fotografato all’andata, ci indicano la via.
Che funghi sono?
Tagliamo talvolta il bosco buttandoci di corsa giù per i cumuli di foglie di faggio, talvolta precorrendo la strada per lasciar tregua alle ginocchia che sono al loro quindicesimo chilometro con un dislivello di millequattrocento metri sia in salita che in discesa. La neve è prossima e probabilmente questo sarà il nostro ultimo giro della stagione a queste quote.
INFO PRATICHE
Pianificazione, abbigliamento adeguato, conoscenza della propria preparazione psicofisica, esperienza tecnica e di soccorso, sono indispensabili per poter affrontare un percorso in natura.
L’autore declina ogni responsabilità in ordine ad eventuali infortuni che dovessero verificarsi nei percorsi descritti dal reportage. Rispetta l’ambiente e le sue creature.