Ravenna Nightmare: “Big Bad Wolves” di Aharon Keshales e Navot Papushado

Creato il 29 ottobre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

La prima vera “bomba” del Ravenna Nightmare arriva da Israele: un paese abituato a stupire il mondo con altre tipologie di orrori, orrori presi direttamente dalla realtà, ha saputo approcciare con successo anche l’horror cinematografico. Meglio così, in fin dei conti. Supportato dalla benedizione di sua maestà Tarantino, che lo ha definito il suo film dell’anno, Big Bad Wolves rappresenta in effetti un discreto shock, sia per la crudezza delle situazioni trattate che per un’abilità registica, ben visibile a livello puramente visivo come anche nella scansione di uno script feroce, ammiccante, ironico. Il talento visivo dei due registi, Aharon Keshales e Navot Papushado (chissà, per loro potrebbero spalancarsi le porte di un successo internazionale più duraturo: ne beneficeranno personalmente o vedranno scipparsi il risultato a suon di remake? Lo scopriremo solo vivendo), risalta in particolare nella sequenza-capolavoro con cui si apre il film: l’innocente giocare a nascondino di tre ragazzini viene esaltato da ralenti calibratissimi, montaggio giocato su una forte suspance interna, inquietanti scenari suburbani e musiche ipnotiche, fino a rivelare con eleganza l’inspiegabile sparizione di una bimba, facente parte del succitato terzetto. Da qui prende il via una truce storia di pedofila, omicidi, sevizie e vendette.

Al di là del taglio così “stiloso” della sequenza d’apertura, degna del Von Trier più ispirato, ciò che colpisce davvero di Big Bad Wolves è la capacità di modulare varie identità di genere (dallo squisitamente macabro al “pulp” – di gusto un po’ “tarantiniano” nei dialoghi, per l’appunto -, dal “torture porn” agli stereotipi – talvolta messi in discussione – del “revenge movie”), adattandoli alle più persistenti zone d’ombra della società israeliana. Gli atteggiamenti cinici, spietati, selvaggiamente violenti esibiti dalla polizia e dal potente genitore di una delle vittime sembrano descriverci proprio questo: machismo, culto delle armi, convinzione di poter compiere azioni efferate rimanendo comunque nel giusto. Nella critica ironica a certi comportamenti deviati si può scorgere sia un imprinting ludico che l’ombra lunga del cinema israeliano d’indole più progressista. E per restare in tema si fa spazio anche, controcampo quasi sfumato ma non per questo meno emblematico, all’apparizione di un quieto palestinese a cavallo in cerca di una sigaretta, del tutto estraneo all’escalation di violenza dei vicini ebraici. Si può forse discutere della direzione in qualche modo giustizialista che sembra prendere il racconto verso la fine, ma l’impressione di fondo è che i due autori abbiano saputo gestire egregiamente un sanguigno intrattenimento filmico, gettando al contempo uno sguardo malizioso e sulfureo sulla società d’appartenenza.

Stefano Coccia