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Raymond Carver ovvero: lo scrittore deve essere bravo non utile

Da Marcofre

La maggior parte dei lettori preferisce il romanzo perché “ha una fine”.
Il racconto, secondo costoro, si interrompe sul più bello. Un giudizio che intende: l’autore non era in grado di terminarlo e tronca la storia per nascondere la propria incapacità. Ci sarebbe anche un altro pensiero, qualcosa come: “IO sì che saprei fare di meglio”, ma lasciamo perdere.

In realtà la produzione di un autore di romanzi termina solo con la morte dello scrittore. Tutti i romanzi di Dostoevskij finiscono, certo, però anche i sassi sulle Dolomiti sanno che ciascuno di essi è solo una tappa del cammino. Buona parte dei temi che in apparenza sono esauriti in un’opera, sono ripresi, capovolti oppure ampliati in quella successiva. La parola “fine” nell’ultima pagina è una convenzione; però sto di nuovo divagando.

Molti lettori di Raymond Carver, parlano di storie senza capo né coda, e lo classificano per questo motivo come autore mediocre. Mi rendo conto che come ogni scrittore, Carver a volte non ha colpito nel segno, oppure lo ha mancato, anche se di poco.

È però un modo di pensare che forse deriva da troppa televisione: in mezz’ora accade tutto, ed è bene che ci sia una conclusione. Soprattutto, siamo alle prese con un’ideologia che spinge affinché anche la narrativa si pieghi alla vocazione dell’utilità. E spesso c’è riuscita alla perfezione, questo occorre riconoscerlo.

Decenni di ottimizzazione, di efficienza, che hanno intaccato sanità (niente più ospedali ma Aziende Ospedaliere: distribuiranno utili? Nell’incertezza che faccio: mi metto in coda?), e scuola, potevano risparmiare la narrativa?
No, esatto.

In principio era una moda: ormai è diventata un’ideologia; tanto forte che alza la voce, e chiede ragione della “differenza” che alcuni autori si intestardiscono a perseguire. Per chi desidera fare della genuina narrativa, queste sono questioni secondarie; e se ne infischierà, perché chi scrive in maniera seria non bada molto a come va il mondo.

Il suo essere scrittore dovrebbe già valere come segnale: scrive perché secondo lui le persone non vedono, non vogliono vedere. E quando per esempio qualcuno gli domanderà dell’utilità della sua scrittura, lo scopo, è probabile che faccia spallucce.

Non perché se ne infischi dell’opinione degli altri, o perché scrive per pochi eletti e perciò sia snob. Secondo me, la narrativa soprattutto adesso, in questo periodo storico, non deve fornire risposte. Semmai può, nella maniera più onesta e realistica possibile, osservare la realtà e lasciare chi legge sulla soglia di quel mistero chiamato essere umano.

In questo senso, i racconti di Raymond Carver, ma anche di Flannery O’Connor, sono preziosi. Qualunque sia l’opinione del lettore (e ahimè, spesso costui NON ha opinioni), alla fine della lettura de “La briglia” oppure di “Greenleaf” avrà capito.
La sua intelligenza cioè si sarà fatta più acuta, più esigente, vedrà cose e significati dove prima credeva con forza che non ci fosse niente di importante.

Ci si creda o no, questo processo condurrà alla nascita di una persona.


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