di Fabio Belli
Madrid è una città nella quale si respira calcio ventiquattro ore al giorno. Tanto i fattori concomitanti che portano a questa passione, di sicuro nella capitale spagnola la storia del calcio è stata scritta dalla leggenda del Real Madrid, ma alle spalle delle merengues, la storia dell’Atletico parla di una squadra capace spesso di stravincere in patria ed anche in Europa, tanto che Madrid è l’unica capitale europea a vantare la presenza di due squadre Campioni del Mondo per Club. In questo scenario fatto di 41 titoli spagnoli, 27 coppe del Re, 10 supercoppe di Spagna, 9 Coppe dei Campioni o Champions League, 1 Coppa delle Coppe, 4 Coppe UEFA o Europa League, 3 Supercoppe Europee e 4 titoli Mondiali per Club conquistati complessivamente dalle due squadre, fa impressione pensare all’esistenza di un piccolo club, in uno stadio ancor più minuscolo che ricorda i catini sudamericani di provincia degli anni ‘70, che è riuscito a ritagliarsi il suo spazio nel calcio dei grandi.
Fuochi di gloria in una storia ricca anche di sofferenze, fino alla caduta in terza divisione dalla quale il Rayo si è risollevato solo due stagioni fa, tornando a giocare nella Liga. Sofferenze che vanno di pari passo con l’anima proletaria della squadra: l’ape sulla maglia del Rayo non è regina ma operaia, così come popolati da operai sono gli alveari di Vallecas, il quartiere dormitorio col reddito medio più basso di Madrid, dove sorge lo stadio Teresa Rivero, il catino di cui sopra intitolato alla madre – padrona del Rayo, tredici figli, trentasei nipoti ed un marito curiosamente esponente dell’ultradestra, in un ambiente assolutamente legato, dalla tifoseria in primis, all’estrema sinistra. Il “Teresa Rivero” nel 2001 ha visto i quarti di finale di Coppa UEFA, ma anche partite di terza divisione, retrocessioni e dure sconfitte contro le ricchissime formazioni rivali, così come il quartiere di Vallecas è fatto di orgoglio operaio, grandissima dignità ma anche povertà e disagio. Il fatto però che una realtà come il Rayo resista anche nel moderno calcio ultramiliardario, e che campioni come Cristiano Ronaldo e Messi debbano farsi piccoli, ed entrare nei portoncini stile campetto di periferia del “Teresa Rivero” per strappare i loro faraonici ingaggi, resta uno degli aspetti più belli non solo del football, ma di tutto lo sport moderno.