Lo Spirito Nero è un mercenario omicida, l’incarnazione del terrorismo allo stato puro: nessun progetto di conquista o rivendicazione politica, semplicemente l’autore degli attentati più agghiaccianti degli ultimi anni. E ora ha in mente un obiettivo in terra britannica che farà dimenticare l’11 settembre. Il bersaglio è ancora sconosciuto, ma i servizi segreti inglesi hanno saputo con certezza che si trova in Scozia. Fra i componenti della squadra speciale che viene approntata d’urgenza c’è Angelique De Xavia, tormentata e bellissima, letale nelle arti marziali, unica donna in una task force solo maschile. Sarà grazie alle sue intuizioni e a una colorata banda di personaggi – un genio fallito dei videogame, una coppia di ragazzini terribili scappati da scuola e la vedova di un marito mai morto – che Angelique riuscirà a ricostruire l’identità dello Spirito Nero e a mettersi sulle sue tracce. Con un intreccio magistrale e sanguinoso, spruzzato d’umorismo dark e sarcasmo, l’autore scozzese compone un plot ipercinetico che infila spettacolari sequenze d’azione e colpi di scena, false piste e vicoli ciechi, in un romanzo adrenalinico che cresce in modo esponenziale fino al pirotecnico finale a sorpresa.
“TSS. La morte era ancora poco per loro. Davvero. Quegli stronzi si meritavano di vivere in eterno. Una massa di schiavi sonnambuli di periferia nelle loro colonie penali finto stile Tudor. Una galera dove non c’era nemmeno bisogno di muri perché ai detenuti avevano fatto un tale lavaggio del cervello da convincerli che lì ci volevano stare. Incarcerati per le loro ambizioni, nel frattempo si propagavano e autoreplicavano stupidamente, trasmettendo il loro DNA di supina sottomissione alla prossima generazione di prigionieri dallo sguardo vitreo. E ogni giorno si svegliavano e pregavano che il giorno della loro emancipazione non giungesse mai: “Signore Iddio, proteggici dall’unicità. L’eterno conformismo dona a noi, e liberaci dalla distinzione. Amen”. Ne aveva uno in culo proprio in quel momento, che gli lampeggiava con gli abbaglianti della sua MX3, gli occhi e le narici che si dilatavano a tempo con le luci ammonitrici. Un assoluto coglione. Rischiare la vita nel tentativo di completare il sorpasso prima che finisse la seconda corsia, in modo da essere avanti di una macchina, una macchina, alla coda per il semaforo. Cosa si doveva pensare del valore della vita che stava rischiando? Appunto. Tristi Stronzi Suburbani. Quella era la ragione vera per cui la gente si accoltellava per un sorpasso. La furia dell’automobilista frustrato non era un prodotto del traffico in aumento (anche se il fattore un-passeggero-per-macchina era comune a entrambi), ma rappresentava il massimo avvicinamento a un qualche senso di sfida, l’ultimo residuo spettrale della volontà di autoaffermazione. Era l’unica occasione che avevano di esprimere un qualche senso di identità: dietro il volante, da soli, a combattere per la precedenza con il resto dei senza volto. Se riesci a sorpassare il tizio che ha una macchina 9 più grande, più nuova, più lucida della tua, ti puoi dimenticare di tutti gli altri modi molto più autentici in cui quello ti sta lasciando indietro a mangiare la polvere. Qualcuno ti taglia la strada, ti impedisce di avanzare, e trasferisci su di lui tutte le tue frustrazioni perché ti ricorda quanti ostacoli si frappongono tra dove ti trovi nella vita e dove vorresti veramente essere. La macchina davanti a te è la tua mancanza di fiducia in te stesso, eredità della tua madre iperprotettiva. La macchina davanti a te è la tua paura del confronto, dono del tuo tremebondo, sconfitto padre. La macchina davanti a te è la scuola dove non sei potuto andare, il golf club di cui non sei diventato membro, la loggia massonica a cui non appartieni. La macchina davanti a te è tua moglie e i tuoi figli e i rischi che non puoi correre perché hai delle responsabilità. Ma la cosa veramente tragica è che della macchina davanti hai bisogno, hai bisogno di quell’ostacolo, perché ti permette di non affrontare il fatto che non lo sai dove vorresti essere. Se ti avventurassi oltre la colonia penale saresti perso. È un mondo pauroso là fuori. Non ti ci troveresti. Per questo vengono spesi miliardi ogni anno per pubblicizzare come totem di gusto personale e discernimento macchine praticamente identiche l’una all’altra. Toyota, Nissan, Honda, Ford, Vauxhall, Rover, tutti con la loro monovolume, la loro coupé, la loro familiare, ogni modello difficilmente distinguibile da quelli della concorrenza se non per il marchio. E negli spot vedi uomini dalla mascella quadrata che salvano bambini, combattono con gli squali, scopano come eroi omerici, qualunque cosa per distrarre l’attenzione dalla macchina in sé. “La nuova Vauxhall. I fanali sono leggermente diversi da quelli della Nissan. Perché tu sei leggermente diverso.” E forse no, eh? Ed è qui che entrano in scena i gipponi e le quattro ruote motrici. Tizi che usano un fuoristrada per andare da casa al videonoleggio; l’unico momento in cui la macchina esce effettivamente dalla pubblica strada è quando viene parcheggiata sul vialetto davanti alla loro ‘casetta da sogno’ di cartongesso e compensato, o quando viene portata in officina dopo una curva a più di sessanta chilometri all’ora che ti ricorda che l’aerodinamica vale più della massa bruta. A volte c’è una monovolume per la moglie, oppure una familiare, a seconda del salario. E così risparmi e ti ammazzi di lavoro e baci culi per pagarti quella MRII o CRX o GTI, per tenerti stretto a una qualche patetica illusione di perdurante virilità. Sì, magari hai moglie, bimbi, mutuo e i suoceri a cena ogni domenica, ma una parte di te non sarà mai domata. Chi vuole un’altra fetta di Viennetta Algida?”
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