Rebecca, la prima moglie (di A. Hitchcock, 1940)

Creato il 04 aprile 2013 da Frank_romantico @Combinazione_C

Rebecca, la prima moglie è il primo film di Alfred Hitchcock girato su suolo americano. Quindi, in un certo senso, è il passo iniziale verso un nuovo ciclo artistico che terminerà con alcuni dei più grandi successi del regista, tra La Finestra sul Cortile, Gli Uccelli e Psyco. E in un certo senso i punti di contatto tra questo "nuovo" esordio e quello che sarà il punto più alto nella carriera del regista sono sotto gli occhi di tutti. 
Una favola gotica. Si capisce subito, con quell'incipit onirico e la voce narrante che racconta gli alberi e il mare accarezzati dal chiaro di luna. E poi Manderley, la magione che assomiglia ad un castello delle fiabe e, allo stesso tempo, a una casa stregata. Quella voce appartiene alla protagonista, una ragazza senza nome che conosceremo solo con il titolo da lei ottenuto dopo la prima mezz'ora di film: la seconda signora de Winter. Una moderna Cenerentola che conosce e si innamora del ricco e nobile Maxim de Winter e che, dopo averlo sposato, si trasferisce con lui nella grande tenuta in Cornovaglia. Manderley è però una casa infestata. Non da fantasmi, demoni o mostri chiusi in cantina, ma dal ricordo della prima signora de Winter, la bellissima Rebecca. Rebecca è morta annegata nel burrascoso mare della Cornovaglia lasciando il vuoto nel petto di chi la conosceva, soprattutto in quello dell'inconsolabile marito Max. La seconda moglie de Winter deve scontrarsi con questo fantasma che sembra aleggi ancora tra le mura della magione, con i paragoni improbabili che ne derivano. 

Allora cosa fa Hitchcock? Gioca con la tensione creando una metaforica rete tra le cui spire la giovane protagonista sembra venire pian piano avvolta. Lascia che il personaggio lentamente scivoli nel silenzio delle sue paure e la isola rendendola preda di una non meglio precisata minaccia. Perché, cosa tipica nel cinema di Sir Alfred, il pericolo non è mai ben identificato e mano a mano che passano i minuti assume contorni sempre più definiti divenendo concreto solo nel finale. Rebecca, la prima moglie è un sogno che lentamente trasla nell'incubo, una favola che propone la struttura del thriller in chiave inedita, ma allo stesso tempo è un dramma psicologico e una storia d'amore dal respiro moderno.
Il film viene costruito in modo tale da dare indizi allo spettatore sugli eventuali risvolti della trama ma permette al regista di giocare con quel che non ci viene detto, con quello che non viene mostrato (non vedremo mai il volto di Rebecca, saranno le esperienze di chi l'ha conosciuta e gli oggetti personali della donna a parlare di lei) fino a lasciarci credere tutto e il contrario di tutto. Avvalendosi poi della fotografia chiaro/scuro di George Barnes e di un montaggio chirurgico, elimina i momenti morti e non cede mai dal punto di vista del ritmo.
In tutto questo la protagonista, timida e insicura, diviene vittima non tanto di un pericolo esterno quanto delle proprie ansie e paure. Il suo continuo sentirsi inadeguata, il suo chiudersi in se stessa che si contrappone in maniera così violenta all'ambiente che la circonda, vasto e labirintico, non è molto lontano a quello che deve aver provato Hitchcock dopo il trasferimento oltreoceano. Alla fine sarà proprio l'amore a salvare la donna, un amore puro e smaliziato così diverso da quello della governante Mrs Danvers (Judith Anderson), legata alla sua vecchia padrona in modo morboso e innaturale. Un amore distruttivo che si scontra con quello della seconda signora de Winter, interpretata da un'eterea Joan Fontaine, in grado di far rinascere un uomo come Maxim (un Laurence Olivier tenebroso) contribuendo a distruggere il doloroso passato dell'uomo.
Non manca il sovrapporsi dei personaggi come fossero maschere, altro tema portante nel cinema di Hitch. Il lento coincidere dei volti e delle personalità fino alla totale crisi del concetto di identità.
Appunto, temi portanti di un cineasta che ha saputo reinventarsi senza mai rinunciare a se stesso ma che metteva sempre in dubbio se stesso. Ma forse è stato grazie alla propria insicurezza e alle sue nevrosi che ha potuto regalarci tanti e tali capolavori della cinematografia mondiale. E di questo dovremo sempre essergli grati.


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